Traslochi

Argomento: Editoriali
Autore: Dori Agrosì
Pubblicazione: 6 novembre 2021

Cento anni fa bruciava il Narodni dom di Trieste, la Casa del Popolo slovena, imponente edificio noto anche come Hotel Balkan, appartenuto alla comunità slovena della città dal 1901 al 1920, sede di imprese e associazioni anche di altri ceppi slavi tra cui croati e cechi. Nell'arco di oltre un secolo, questo edificio realizzato in mattoni a due tonalità e bellissimo esempio di architettura liberty, ha vissuto una storia tanto vivace all'inizio quanto poi travagliata.

Dopo l'incendio, i tafferugli e le liti del 1920, il Narodni dom venne espropriato agli sloveni e rimasto a lungo inoperoso, poi restaurato da cima a fondo negli anni Novanta diventando il Regina, sede della facoltà per Interpreti e Traduttori.

Poiché questa facoltà universitaria prima di traslocare al Regina era già in una sede provvisoria – per decenni parcheggiata in una ex caserma dei vigili del fuoco in attesa di un luogo da destinarle –, l'episodio recente della restituzione del Narodni dom suscita un certo interesse a quanti si sono laureati o frequentano oggi l'università proprio in quell'edificio, tempio delle lingue, delle culture, dell'altro, dell'altrove, del simile, del vicino e del lontano. Del rispetto innato che un traduttore e un interprete hanno per ciascuna di queste realtà.

Tuttavia è sempre un po' avventato per chi non è cittadino allogeno pronunciarsi sulla delicatissima faccenda del Narodni dom; nel mezzo c'è un battito di dolore e i fatti rimandano a una tensione di confine in un delicato momento storico, quello tra la prima e la seconda guerra mondiale, un periodo in cui quella stessa tensione era fomentata da un regime ribollente, pronto a seminare odio da entrambe le parti: tra la minoranza slovena a Trieste e nelle province italiane di Istria e Dalmazia, sulla costa orientale del Golfo. Numerose le pagine degli autori italiani di quei territori e degli autori sloveni oltre il confine. Tra loro, Boris Pahor scrittore sloveno di Trieste, racconta il drammatico episodio dell'incendio con Il rogo nel porto (traduzione di Mirella Urdih Merkù, La nave di Teseo).

Oggi il Narodni dom di Trieste è tornato agli sloveni, in un gesto distensivo tra Sergio Mattarella e Borut Pahor, conciliatorio, d'apaisement, a scongiurare il ripetersi della storia, rivolto a promuovere una storia in cammino nel patrocinio di una convivenza sinergica, armonica, come pure europea.

In un clima a est, questo numero La Nota del Traduttore mette in evidenza la letteratura boema con le traduzioni dal ceco di Giuseppe Dierna, a cui è dedicata l'intervista. Nelle sue note due autori boemi, Karel Čapek e Bohumil Hrabal.

Karel Čapek – e si pronuncia /Ciàpek/, esattamente come lo pronuncia il Dierna – è tra i più noti intellettuali del XX secolo, vissuto nel periodo intenso tra la prima guerra mondiale e le avvisaglie della seconda, conosciuto al mondo per l'invenzione del termine robot, tuttavia non inteso come l’automa metallico, semmai come un androide, nell’idea del lavoratore che deve tutto al padrone senza tenere né produrre niente per sé. Le sue opere sono scritte con molta ironia e altrettanta intelligenza sull’incalzare del progresso, tra realtà angoscianti, invenzioni industriali premonitrici, nonché il loro impatto sulle masse tra cui le amare conseguenze della scoperta dell’energia atomica.

Il romanzo La fabbrica dell’Assoluto (traduzione di Giuseppe Dierna, Voland, 2021) comincia con la data del 1 gennaio 1943 a Praga, in pieno conflitto mondiale, ma questo l’autore non poteva saperlo perché la sua favola fantastica venne pubblicata molto prima, nel 1922 e lui stesso è trapassato nel 1938. Di Čapek si parla non a caso di scrittore dell’anticipazione, non soltanto come precursore del genere fantastico – ancorché diverso da quello americano di Wells o da quello francese di Verne, più all’ombra di Kafka e di Chesterton –, ma anticipatore per avere immaginato eventi accaduti nei decenni successivi.

Nella stessa epoca anche nell'arte si nota la stessa riflessione, come nei manichini senza volto di De Chirico a esprimere una certa angoscia per le macchine, simbolo dell'uomo-automa, robot ottenuto dal progresso tecnologico. Čapek non si esime a descrivere la scena delle macchine che lavorano da sole al posto degli operai, ma smorza la riflessione con un umorismo spassoso, insieme all'intervallarsi delle delicate illustrazioni del fratello Josef (come anche l'illustrazione in copertina). In parallelo, i numerosi riferimenti topografici su Praga mostrano in filigrana la tensione geopolitica di quegli anni tra Boemia e Germania, ma vi rimando alle più abili parole di Giuseppe Dierna e al bellissimo articolo di critica di Emiliano Sabadello (nella rubrica Extra).

Buona lettura,