Intervista a Adrián Bravi

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 29 maggio 2007

Quale tipo di difficoltà incontra uno scrittore migrante quando sceglie di scrivere in una seconda lingua?

Paradossalmente, la prima difficoltà che si trova, passando dallo spagnolo all'italiano, e viceversa, è proprio la somiglianza. Quando si scrive in una lingua affine alla lingua madre si tende sempre a trascinare il proprio corredo sintattico per applicarlo all'altra lingua. Abbondano i "falsi amici". Certe volte, sapendo coniugare questa sorta di "estraneità", si creano delle cose interessanti, altre volte invece i risultati sono disastrosi. Sarebbe più semplice, suppongo, anche se non ho esperienza diretta, cambiare completamente registro (penso al passaggio da una lingua ad un'altra lingua completamente diversa, come potrebbe essere il passaggio dall'italiano all'inglese o al tedesco). Comunque, affine o no, lo straniero è sempre a caccia di una lingua e la preda è quella bestia feroce, quel "volgare illustre", spesso inafferrabile, di cui parla Dante. Ogni "straniero" deve confrontarsi con questo rischio, con questa caccia logorante.

Sei argentino, ma le tue origini sono italiane?

Sì, ho origini italiane, entrambi i miei genitori sono italiani, così come il resto della mia famiglia. Sono sempre stato uno straniero in famiglia. Io nei confronti loro e loro nei confronti della società. Tuttavia, i miei genitori, emigrati dall'Italia quando erano piccoli, hanno "disimparato" presto la propria lingua e non hanno potuto insegnarmela, e così, ho cominciato la mia "caccia" all'italiano quando sono venuto qua.

Come nascono i tuoi romanzi, cosa ti ispira?

Non credo al fatto che ci sia un'ispirazione dietro a quello che scrivo. Il mio lavoro, se così si può dire , nasce solo dalla fatica, dallo sforzo quotidiano, da quello che mi prefiggo di fare. Mi piace costruire una storia partendo dalle stranezze della gente, cogliendone il lato buffo e quello drammatico, ad esempio mi interessano le persone che contano le mattonelle del bagno, o quelli che mettono le pantofole in linea con il bordo del letto, prima di coricarsi, oppure, come Anselmo nel romanzo La pelusa,quelli che puliscono dalla mattina alla sera. Ho un'amica che non riesce a fare nulla se prima non pulisce per bene la cucina. Il resto della casa può cascare a pezzi, ma la cucina deve essere intatta e senza macchie. Penso che queste persone abbiano tante cose da raccontarci. Invece dubito fortemente degli scrittori "viaggiatori", quelli che girano, riempiono un baule di esperienze e tornano a raccontarcela. Li leggo malvolentieri, con le dovute eccezioni per i grandi, si capisce.

Tu hai anche tradotto. Quando scrivi invece pensi al lettore dei tuoi romanzi in altre lingue, in altri paesi?

Ho tradotto pochissime cose, le poesie di Primo Levi e poco altro. E non mi sono mai posto il problema della fruizione dei miei romanzi in altre lingue, così come non penso a un uso "extra-letterario". Scrivo in italiano, penso in italiano e questo mi basta: compensa la mia estraneità. Certo, molte cose che faccio risentono di un retaggio culturale tipicamente argentino, ma non mi pongo un problema di fruizione, cerco solo di tradurre un'altra comunità potenziale, come dice Deleuze, in una lingua diversa: rendere possibile un'altra sensibilità, un'altra coscienza. Questo fatto di sentirmi straniero in una lingua come l'italiano la rende ancora più affascinante per me. L'estraneità produce uno sdoppiamento: da una parte ci dà la possibilità di trovare una distanza rispetto alla lingua ospite e dall'altra ci dà la possibilità di appropriarcene. E' in questa tensione che ci muoviamo quando scriviamo in una lingua straniera. Anzi, è questa stessa tensione a generare uno "stile".

Da quali lingue traduci?

Mi sono sempre mosso tra lo spagnolo e l'italiano. Ho tradotto dall'una all'altra e viceversa. Non mi sono mai azzardato a cimentarmi in altre lingue, anche perché le conosco troppo poco.