Caro signor Capote

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 9 febbraio 2019

Caro signor Lish, diciamocelo! Il suo libro è difficile. Aspetti. Rettifica. Rettifica. Ricomincio da capo. Caro Gordon, il tuo libro è bello. E difficile. Bello, difficile e complicato.

Caro signor Lish, dice bene: è tutta questione di voci. E qui, proprio come voleva lei, la voce del suo protagonista – il sedicente aspirante serial killer Davie, alias «yours truly» – è unica: artificiale e naturale allo stesso tempo, sgradevole come può esserlo la voce di chi tenta, non sempre con successo, di darsi un tono letterario davanti al «qui presente» (che poi tanto presente non è) Truman Capote, per convincerlo a diventare il suo biografo; una voce fatta di slogan e tormentoni radiofonici degli anni cinquanta – persa nello sforzo di ricordare i modi di dire resi celebri dai numi tutelari Ben Bernie e Bill Lido – e infarcita dei proverbi e delle frasi fatte di sua madre, del suo primo amore Janet R. e della moglie T.C. Una voce scandita e punteggiata dalle parole ricercate e difficili del calendario lessicale del figlio, ognuna delle quali rimanda a un presunto omicidio. Ed è una voce che prende ritmo, si blocca, si contraddice, si smentisce, si ripete, rivela un altro brandello di verità per tornare poi subito sui suoi passi. Che simula logica e si perde nell’immagine ossessiva di una rissa al coltello in una via equivoca e affollata di New York. O nella ricerca di una bici a dieci marce per il bambino.

Caro signor Lish, c’è riuscito, senza bisogno di aggiungere questo, quello e quell’altro. Sì, perché sa, caro signor Lish? Una voce come quella del suo protagonista, per un traduttore diventa un’ossessione che l’accompagna per dei mesi. Soprattutto quando il tono è così febbrile e sconnesso. E presenta, prima ancora che un problema di resa, un ostacolo molto serio: la comprensione effettiva di quel che accade.

Caro signor Lish, il suo è un testo allusivo, che procede secondo una (il) logica interna ben precisa, eppure difficile da decifrare. E «yours truly» allude a cose comprensibili solo a lui e a chi intende il suo gergo criptico (forse solo sua madre, da cui l’ha preso per la maggior parte; «fine della discussione, punto»).

Oppure anticipa. Mette lì frasi enigmatiche. E solo dopo le spiega, a modo suo, con una logica inversa che lascia perplessi.

Caro signor Lish, e il ritmo! Vogliamo parlare del ritmo? È un andamento «scazonte», direbbero quelli del giro suo, di Norman e di Truman. Insomma, non dà appigli immediati: accelera, si ferma, torna indietro, barcolla. Caro signor Lish, quanto c’è voluto per capire che i punti in cui «yours truly» chiama al walkie talkie il figlio («Capo Rosso, mi senti? Qui Capo Blu, rispondi, per favore»), non sono «interni» alla narrazione, ma quasi degli «a parte» teatrali. In diretta, per così dire. E poi, detto tra noi, in via del tutto confidenziale – per questo modo di dire, di mantenere il suo «tra te, me e il lampione» non me la sono sentita! –, ci si accorge dopo un po’ che la voce di Davie si fa sempre più sconnessa: parte con un elenco, un appiglio, una serie di incipit scartati quasi lucidamente. Ma poi «s’incarta» sempre più, perde il filo man mano che recupera i ricordi, fino a condensarsi solo nel ritorno alla voce di sua madre e a quella del «vecchio maestro» della radio, Ben Bernie: aufwiedersehn, au revoir, e sognetti belli...

Senta, caro signor Lish, chi le scrive è partito per cercare di mantenere gli aspetti più innaturali (e studiatissimi, non c’è da sbagliarsi) della sua voce narrante. Ecco perché yours truly si chiama con un letterale «il suo affezionatissimo», invece, che so, di «il sottoscritto» (ma neppure questa soluzione sarebbe stata possibile: infatti, com’è anticipato nelle prime pagine, in fondo non c’è firma!). Ma in seguito è risultato chiaro: l’aspetto straniante prevale già nelle difficoltà dell’andamento, nella ricostruzione complessa dei fatti. Allora la traduzione può puntare, non ad appianare, ma a evitare di complicare ulteriormente le cose. Senza spiegare quel che non va spiegato.

Caro signor Lish, a un editor di fama come lei non c’è bisogno che lo dica; ma sa quant’è importante in un testo così il contributo di un secondo sguardo. La revisione di Leonardo Luccone alla traduzione è stata fondamentale per tirare le fila di un’opera complessa, per cercare di venirne almeno parzialmente a capo.

Caro signor Lish, lei ha tessuto una rete di rimandi che riaffiorano come chiavi di volta (Che ne dice, eh? Chiave di volta è una delle sue parole ricorrenti!) nella costruzione vasta e all’apparenza disordinata del romanzo. Sono immagini, ma soprattutto spie linguistiche da riprodurre con costanza. E che alla fine ripagano il lettore attento, che dagli indizi disseminati può ricostruire un senso.

Caro signor Lish, nelle ultime pagine lei lo svela chiaro: la voce di «yours truly» è l’essenza di tutti gli altri personaggi: «e quando il vostro affezionatissimo si congederà, voi tutti non sarete più niente». E dunque forse anche il traduttore, in questo caso, è solo un’altra faccia del narratore, un «io che parlo con me stesso invece di starmene zitto!».

Per questo, allora, conto che forse mi perdonerà se anch’io mi firmo, indegnamente, il suo affezionatissimo,

Giovanni Garbellini