Lost in Translation

Argomento: Saggio
Autore: Ella Frances Sanders
Pubblicazione: 12 aprile 2016
Un piccolo antidoto alla Torre di Babele Quando mi è capitato fra le mani Lost in Translation nell’edizione originale americana ho provato un profondo senso di delizia e smarrimento, come avviene quando ci s’innamora. È stato il regalo di un’amica e, come tutti i regali azzeccati, ha avuto una conseguenza: il desiderio impetuoso di tradurlo, in questo caso. Così, anche grazie alla cordiale disponibilità dell’autrice, mi sono messa alla ricerca di un editore il quale per mia fortuna ha subìto la stessa forma di innamoramento. Lavorare a un libro composto – letteralmente − di sole parole intraducibili incarna un incubo quasi ancestrale per un traduttore, è simultaneamente una punizione, una gioia, una sfida. Nel suo slalom fra le parole e insieme alla responsabilità per ogni scelta compiuta, ogni traduttore sa che dovrà affrontare l’intraducibile: uno spettro ma anche un amico, con cui si è consapevoli di dover dialogare e fare i conti vis à vis. Schegge di intraducibilità sono disseminate qui e là nei testi con cui i traduttori si sintonizzano, combattono, amoreggiano quotidianamente e la parola intraducibile è il rebus da dover sciogliere sapendo in anticipo che non sarà risolvibile. O, almeno, non completamente. Il traduttore sperimenta non soltanto la necessità di stanare parole altre per dire – quasi ‒ la stessa cosa ma, ancora prima, quella di immaginare che queste parole esistano. Per questo penso che i traduttori siano i testimoni più attendibili del rispetto e soprattutto della fiducia che si può arrivare ad avere nelle parole e nel linguaggio, soprattutto quando il testo sembra tenacemente rifiutare un adattamento e si cerca una trasposizione che lasci intatto il senso, il profumo, il bagliore di quella precisa parola. Nella mia assai parziale esperienza ho sempre vissuto il processo traduttivo come un’immersione profonda fra i due poli delle lingue e culture in dialogo; in questo caso e nonostante fosse l’inglese la lingua da tradurre, mi sono “forzatamente” ritrovata in contatto con tutte le culture racchiuse nelle parole di Lost in Translation. Parole che sono minuscole punte di iceberg ad alto tasso di poesia, che si portano dentro i meccanismi di ogni lingua, l’unicità di ogni cultura: le parole composte del tedesco, la peculiarità dello yiddish, la densa esattezza del giapponese, la musicalità dell’arabo. Ogni parola è stata un viaggio verso una cultura differente, verso la sorpresa di sapere che esiste una parola per quel gesto, fatto mille volte da bambino, del raccogliere l’acqua della pioggia fin quando la mano non è colma o l’ammirazione per il popolo che possiede una parola per definire la scia luminosa della luna che si riflette sull’acqua. Lost in Translation mi ha condotta nelle viscere della diversità linguistica, facendomi però intravedere la possibilità di usarla come rimedio cui attingere quando una parola come Trepverter, Naz o Tsundoku illumina anche per te la possibilità di esprimere rispettivamente una battuta ironica venuta in mente troppo tardi per essere pronunciata (yiddish), la sensazione di orgoglio e sicurezza che deriva dall’essere amati incondizionatamente (urdu) o la pila di libri che abbiamo comprato ma non ancora letto (giapponese). Lost in Translation mi ha permesso di dare un volto dolce all’intraducibilità, è stato un piccolo antidoto al castigo della Torre di Babele, compiendo l’incantesimo di captare una relazione in ciò che prima appariva intrinsecamente isolato e distante. Una decina d’anni fa a una mia domanda su come definire la poesia un noto poeta replicò che la poesia è la parola intraducibile. Non intendeva certo dire che i testi poetici sono intraducibili, ma che l’essenza stessa della poesia è l’intraducibilità. Da questo punto di vista, tradurre Lost in Translation per me è stato un processo ad alto tasso di poesia, è un libro a cui sono grata per molti motivi, dove ogni parola è una poesia già tradotta dall’autrice stessa anche in immagini che sono rimaste identiche all’edizione originale. Il ruolo delle immagini nel libro è molto forte, tanto che nelle illustrazioni l’autrice ha lei stessa ricreato la traduzione italiana in forma illustrata per questa edizione. Dopo aver tradotto questo libro credo che una delle infinite ipotesi sulla traduzione, forse, possa essere anche quella che tradurre sia affrontare ed esplorare con rigore, fiducia e un po’ di sana follia proprio l’intraducibile, questa fessura misteriosa e così feconda che ci viene incontro nostro malgrado, tentando di interpretare la diversità linguistica non come una condanna ma come un dono e provando a conservarne intatta tutta la bellezza.