10 domande a Jon Rognlien, traduttore di Camilleri in norvegese

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 11 febbraio 2005

Quando è cominciata la sua attività di traduttore?

Innanzitutto diamoci del tu. Sai, per un norvegese, queste formalità danno un po' fastidio. Come un vestito troppo largo, troppo bello, che non siamo degni di portare. Ho qualche difficoltà nel ricordare la data precisa - perché all'inizio degli anni Ottanta ho lavorato come giornalista in una rivista norvegese, Gateavisa (tr.: "il giornale della strada", simile al vostro Frigidaire, per chi lo ricorda ...), e già lì ho tradotto varie cose, fumetti, articoli ecc. Non avevo ancora imparato l'italiano, e traducevo dall'inglese e dallo svedese. Poi, pian piano, ho imparato l'italiano - col metodo "naturale", cioè attraverso una storia d' amore - e mi sono arrivate varie richieste di lavoro. Ho tradotto dei fumetti italiani di dubbia qualità - gialli che pretendevano di essere fatti negli USA ("spaghetti-fumetti"?). Il primo film che ho sottotitolato si chiamava La Stazione, ed era il debutto di Sergio Rubini. Bel film. Ho tradotto (sottotitolato) più di cento film, e non solo italiani. Ho appena finito di tradurre un film americano indipendente, Mysterious Skin, di Gregg Araki.

L'italiano è una lingua molto studiata in Norvegia e nell'area scandinava?

Ma no, au contraire, siamo un piccolissimo gruppo che conosce la lingua italiana, almeno a livello professionale. Di traduttori letterari che lavorano con l'italiano siamo in tutto una decina, e tra questi uno soltanto lavora a tempo pieno con l'italiano. Io traduco anche dall'inglese e svolgo altre attività, come critico e giornalista, ma pure fuori del campo letterario: per anni ho lavorato in una ditta di elettricisti, sono specializzato in centrali elettriche. Sapete, quando lavoro alla tastiera davanti allo schermo con una traduzione, mi manca spesso l'attività di elettricista. Mentre il contrario, no - quando sto mettendo a posto un impianto elettrico, non mi manca mai il mondo degli editori - tanto arrogante e sottopagato. Essendo artigiano, e di stirpe artigiana, mi piacciono molto tutti gli aspetti artigianali del mestiere del traduttore. Ma sono abituato a tutt'un altro rapporto con i clienti. Chi è il cliente? La casa editrice! E allora, come osano trattarci come se i clienti fossimo noi? Dobbiamo forse ringraziarli perché ci danno il lavoro? È assurdo. Dovrebbero venire loro in ginocchio a casa nostra e pregarci umilmente di riceverli! Scusate la divagazione. Torniamo su questo argomento più avanti.

Come t'ingegni a restituire la "lingua" di Camilleri nella cultura norvegese?

Ecco la domanda che mi fanno tutti gli italiani dopo aver saputo che lavoro con i libri di Camilleri. "Ma com'è possibile? Non si può, il valore sta tutto nel gioco della lingua!" ecc. Infatti non si può. La lingua di Camilleri non viene "restituita" nella mia traduzione. La mia strategia comporta un tradimento radicale dell'idea di equivalenza. Ogni traduttore di Camilleri deve scegliere una propria strategia. Per qualcuno viene naturale sostituire i dialetti meridionali con i dialetti del suo paese. La lingua francese può offrire qualche sfumatura mediterranea, Marsiglia per esempio. In Norvegia una cosa del genere è impossibile, perché un dialetto porterà il lettore in tutt'altro posto che sotto le palme soleggiate della Sicilia. I nostri dialetti evocheranno fitti boschi di abeti, altipiani bianchi con 40 gradi sotto zero, pescherecci ornati di ghiaccio, completamente coperti, in un temporale nei mari artici. Il problema più acuto nella traduzione di Camilleri, è che l'autore si basa molto sull'uso del dialetto in senso narrativo. Cioè, impiegando la lingua siciliana, riesce in modo molto efficace a dire una grande varietà di cose al lettore italiano, senza nominarle una per una. Non ha bisogno di dare cenni storici e antropologici, descrivere paesaggi, parlare del razzismo interno in Italia. Un lettore italiano sa immediatamente, quando apre un libro di Camilleri, che si trova in Sicilia, con tutto quello che comporta (agrumi, palme, Falcone, Sciascia, Nero d'Avola, Pirandello, saraceni, normanni, Etna, Enna, tonno, mandorle, ecc). L'autore conosce questa competenza del suo lettore, e conta sulla capacità del singolo lettore di "riempire i buchi" nella narrazione. Pensate alla teoria di Umbertino Eco, che un testo è "una macchina pigra" - a lazy machine - che chiede al lettore di svolgere gran parte del suo lavoro. Allora, un lettore norvegese, dovendo riempire quei buchi, difficilmente andrà a finire in Sicilia. Si perderà per strada, molto prima di arrivare. E poi c'è da aggiungere: per un norvegese qualunque l'Italia è prevalentemente una cosa. L'Italia è Torino e Venezia e Firenze e Roma e Sicilia e Napoli e spaghetti e parmigiano e mozzarella e Ferrari e Michelangelo e Armani e Milano e Dante e Chianti e Campari e Colosseo e Pompei e O sole mio e i gondolieri e Rimini e via dicendo. Mentre l'Italia per il norvegese raramente è Pippo Baudo, Marechiaro, Enzo Tortora, Franco e Ciccio, Un posto al sole, Raffaela Carrà, Fregene, Chioggia, Bari, Caserta, la scamorza, Bergamo, Frosinone, la cassata, Giovanni Gentile, Mazzini, Verga, Totò, o l'interminabile guerra tra pandoristi e panettoniani. Tante parole per dire che la competenza specifica del lettore qui in Norvegia è ristretta, e non scende al di sotto di un certo livello. E Italia rimane sempre Italia, settentrione o meridione che sia, Adriatico o Tirreno. Ricordatevi che per un norvegese persino la Danimarca sta MOLTO a sud. Un giorno intero di viaggio! Per non parlare della Germania: tutti terroni/cattolici. Arrivo al dunque, ora, state tranquilli: per riscuotere dal lettore della mia traduzione di Camilleri un giusto ripieno da mettere nei buchi del testo, ho scambiato il gioco "dialettale" con un gioco "nazionale", ragionando così: la distanza tra Firenze e Palermo si può in un certo senso paragonare alla distanza tra Norvegia e Italia. Ho scelto di lasciare parecchi richiami alla lingua italiana nel mio testo, usando parole che sono facilmente decifrabili (un po' come infatti è anche il siciliano di Camilleri - si capisce senza dizionario, almeno dopo un po') con titoli come "commissario", "avvocato", "cavaliere", "signora", nomi di piatti tipici, "omertà", "capo", certe locuzioni lasciate in corsivo e poi subito spiegate. In quel modo il testo cerca di fare un richiamo costante all'italianità del testo (che comprende la sicilianità, per noi). Il gioco è un altro, ma è analogo. Mi spiegai? (come dicono spesso i siciliani di Camilleri).

Quanto è importante per un traduttore potersi consultare con l'autore?

Difficile da dire. Ogni tanto è bello, oltre che utile, e può anche nascere un rapporto interessante. Qualche rara volta l'autore non ci sta, e si offende perché il traduttore gli fa delle domande. Dice: "Ma come?! Se non capisci questo, come puoi pretendere di fare traduzioni?! Ma chissei?! Vattene, verme schifoso che sei, che hai osato avvicinarti al mio capolavoro!" Per fortuna una reazione così è rara, ma mi è capitata (e non faccio nomi, eh no, eh! almeno non qui in pubblico ...) Qualche volta un contatto con l' autore può rendere il processo della traduzione più difficile, più complicato. Strano ma vero. Per lo scrittore non è sempre facile capire che un'altra lingua per motivi di grammatica esige il chiarimento di una cosa che lui appositamente ha voluto dubbia. Mi è capitato ultimamente con Ammaniti: Io non ho paura, dove il sistema grammaticale norvegese, che vuole il genere neutro, ha richiesto che la scoperta dell'individuo nel fosso ("bambinO" in italiano - genere maschile che però può anche riferirsi ad una bimba, se non è noto il sesso; "barn" in norvegese - parola di genere neutro) di fatto è maschio, avviene a un certo punto, perché bisogna cominciare a dire "gutt" (parola di genere maschile), che vuol dire bambino maschio. Io dunque ho chiesto: Quando deve avvenire questa scoperta? Allora l'autore, Niccolò Ammaniti, mi ha risposto così: "Non deve avvenire. Michele sa già, istintivamente, che il bambino è maschio. Puoi tranquillamente mettere "gutt" già dall'inizio." Ma non è così. Quando Michele ha visto solamente una gamba che usciva da sotto la coperta nel fosso, non avrebbe potuto dire, in norvegese, altro che c'era "et barn" nel fosso. Ma dopo qualche pagina (intorno alla pagina 70, mi pare di ricordare) è diventato "en gutt". Per forza. La transizione avviene in italiano senza che si faccia nemmeno caso. Che un "bambino" sconosciuto si rivela essere un maschio, succede senza clamore. Se invece fosse successo il contrario, che il bambino nel fosso si fosse rivelato essere femmina - allora questo avrebbe richiesto un commento anche nel testo italiano. Mi spiegai? Allora, la risposta di Ammaniti (che tra l'altro era simpaticissimo) ha complicato la cosa. Che dovevo fare? Cercare di spiegargli meglio come funziona la grammatica norvegese? Lasciare perdere? Non sapevo. Allora ho chiesto alla redattrice il suo parere. Lei ha detto: "Mettiamo semplicemente una frase che non c'è nell'originale: 'Det var en gutt'. ('Era maschio')." E mi ha suggerito un momento preciso della narrazione dove mettere la frase, e tutto si è risolto. Non l'ho ancora detto ad Ammaniti, per pudore, forse, per viltà - ma può darsi che lo legga qui - !

Esiste l'albo dei traduttori in Norvegia?

No, assolutamente no. Il mestiere del traduttore non richiede un albo - È impensabile. Chi è il bravo traduttore? Quello che ha seguito determinati corsi universitari? Il traduttore - come molti altri mestieri artistici e altri - deve essere una cosa che chiunque può tentare di fare. Bisogna essere bravo. Quella è la cosa veramente difficile. Un traduttore è un artista. Io so che alcuni dei colleghi italiani pensano che sarebbe utile "chiudere" il campo per assicurare un flusso sicuro di lavoro e per spingere i clienti a pagare di più. Per me questo atteggiamento è abominevole. Per me richiama al male più diffuso e dannoso - a mio parere - in Italia: l'arroganza. Ma chi crediamo di essere? 6. Per quali diritti contrattuali si battono i traduttori in Norvegia? La nostra lotta è molto simile alla vostra. Da un lato vogliamo il rispetto - essere nominati dove occorre, ma anche considerati indispensabili per l'uscita di un libro straniero. Non vogliamo essere trattati come delle scomode ma purtroppo necessarie spese: la traduzione è la condizione di partenza per un libro, non l'ultima spesa da tagliare al minimo. Ed ecco siamo arrivati al discorso di prima: vogliamo un compenso che ci permette di lavorare bene. Magari una royalty, che almeno ci permetterebbe di partecipare ai grandi guadagni che ogni tanto fa un editore con un libro straniero (bisogna ricordarsi che gli editori GUADAGNANO, e guadagnano bene, sul settore letteratura straniera - benché sempre fingano di fare tutto solamente per "passione", per l'amore della letteratura ... grrrr ... sono stufo di questo ricatto sull'amore!)

Nel tuo paese si può vivere di sola traduzione?

Sì, ma anche in Italia, mi pare, - basta lavorare bene, in fretta, saper trattare, combinare il lavoro con letteratura alta con roba leggera. E rinunciare a qualche oggetto di lusso - riconoscendo il lusso che è in se, un mestiere come il nostro. Badate bene, però, non sto dicendo che non dobbiamo chiedere un compenso maggiore! 8. Sei anche critico letterario, qual è la letteratura più apprezzata nell'area scandinava? Da noi, purtroppo, ci si interessa anzitutto alla narrativa norvegese. Certo ci sono dei validi scrittori nostrani, ma il livello medio, in confronto al livello medio della narrativa tradotta, è bassissimo. Sarà comunque sempre impossibile dare un giusto riconoscimento a tutta quella bella letteratura che esce nel mondo. L'industria del libro è gestito parzialmente dalle forze del mercato. Io ho smesso tanti anni fa di sognare di proporre libri da tradurre. Tanto comprano tutto alla fiera di Francoforte. Gli agenti sono molto più bravi di me a far capire ai redattori che uno scrittore può essere interessante sia da un punto di vista artistico, sia pecuniario. Che ne saccio io di quali libri si può vendere qua? Niente.

Ti piacerebbe che le riviste letterarie dedicassero uno spazio alla traduzione e ai traduttori?

È difficile scrivere sulla traduzione senza scendere nelle banalità. E qui anche la logica del mercato è forte. Un critico di un quotidiano non può fermarsi tanto sulla traduzione di un libro, perché così non fa il suo mestiere di critico, in uno spazio limitatissimo. Perciò uno spazio come questo - N.d.T. - è tanto prezioso. Qui possiamo parlarci liberamente del mestiere.

Qui in Italia sei stato presente a vari convegni e iniziative per traduttori. Qual'è la differenza maggiore tra l'ambiente dei traduttori in Norvegia e in Italia?

Da noi i traduttori si conoscono. Ci vediamo spesso. Il nostro sindacato dei traduttori letterari ha più di cinquanta anni. Ci sono anche altri sindacati - uno per i traduttori tecnici, uno per quelli "audio-visivi" (televisione/video), uno per chi lavora con il cinema (il giro delle sale), uno per gli interpreti, e adesso c'è chi cerca di organizzare uno per i traduttori di fumetti! Tutti però collaborano bene tra loro. Adesso anche voi in Italia avete cominciato a vedervi, a Urbino, alle fiere del libro, alle presentazioni di libri in varie città, nel Sindacato Nazionale Scrittori, ai vari corsi e convegni. È proprio qui che bisogna cominciare se si vuole migliorare le condizioni per tutti: bisogna conoscersi. Scambiare esperienze. Condividere trucchi. Rafforzarsi a vicenda, insegnare e imparare come comportarsi con i clienti - gli editori. Segnalare abusi. Alzare il livello di coscienza del mestiere. Poter rispondere, quando uno chiede "Ma chissono 'sti traduttori?" - "Siamo noi!" Non solo dire - "Beh, non lo so chi sono, ma cerco di esserlo io". In questo Biblit è stato importantissimo. Quella comunità non solo mi ha dato un sacco di aiuto nel mio travaglio con i testi italiesi, ma anche numerosi amici e amiche. Forse questo per alcuni può sembrare un discorso di vecchio stampo, di nostalgia per la lotta operaia del protocomunismo. Ma non lo è. Capire come stanno le cose non è mai un male.