L’attesa silenziosa
di: p. Vincenzo D’Adamo sj
Rettore della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola
Roma
Un artista davanti alla tela vuota: a questo mi ha fatto pensare Papa Francesco durante i riti della Settimana Santa. Da solo, senza la consueta folla, ha celebrato la liturgia, confinato nello spazio vuoto di piazza San Pietro e nella Basilica vaticana. Le immagini enfatizzate dall’ipertrofia mediatica, hanno avuto il pregio di mettere il vuoto al centro della narrazione pasquale. “Non è qui…”, annuncia il Vangelo della resurrezione, come testimoniano gli amici di Gesù alla tomba vuota. Piazza vuota, basilica spoglia: dramma della desolazione ecclesiale o profezia di vita nuova? Simbolo di una risurrezione in atto? Di un oltre, di un passaggio (esodo) da vivere?
Mi piace immaginare ogni credente, non soltanto il Papa, come un artista che vede il dipinto prima che sia sulla tela; che sente prodursi un’armonia non ancora fissata sulla partitura; che osserva il soggetto non ancora scolpito. Il sacerdote-artista celebra in un vuoto aperto e accogliente colmato da una percezione di ordine interiore, quindi reale oltre che mediatica.
Questo paradigma lo avevo avvertito anche nel gesto compiuto dal Pontefice domenica 15 marzo: il suo pellegrinaggio, solitario e orante, da Santa Maria Maggiore al Crocifisso in San Marcello a via del Corso nel centro di Roma. L’immagine del Papa mentre percorre la strada deserta mi ha richiamato un altro artista del lavoro contadino, ben identificato evangelicamente nel seminatore; lavoratore della speranza che procede lungo il solco arato, vuoto e silenzioso, deposita con fiducia, passo dopo passo, il seme. Simbolo di una vita nuova, di una rinascita fiduciosa nonostante la fatica.
Questo tempo di confinamento ha fatto emergere dei segni allusivi a un’autentica fede evangelica, fondata sulla fiducia nella risurrezione, sulla speranza della vita nuova oltre la paura, la malattia e la stessa morte. Purtroppo ha riesumato anche distorsioni dell’animo, perversioni dello spirito religioso. Una delle tante – che hanno infestano il web, si è manifestata in questi termini:
Eravamo ubriachi di arroganza e consumismo, ora dobbiamo tornare a sentirci fragili come tutti e come tutti bisognosi gli uni degli altri. La Provvidenza indossa questo guanto di ferro, perché, amorevolissima, colpendoci fuori, nelle nostre attività e ricchezza, vuole guarirci dentro.
La “Provvidenza” che colpisce col guanto di ferro!!! Il terribile Covid-19 utilizzato da Dio per guarirci dentro? Ma a quale realtà di Dio si fa riferimento? Ma quale assurda concezione del rapporto tra evento naturale, volontà divina e nostra responsabilità?
Le situazioni più decisive della nostra vita possono formularsi in noi con chiarezze veritative; ma possono anche fare emergere fantasmi ancestrali e archetipi da renderci incapaci di comprendere la verità delle cose poiché alimentano una deformazione dell’intelligenza e del cuore, o, più banalmente, insulsaggine, superficialità e luoghi comuni.
Purtroppo, nell’intricata rete web dopata di ogni espressione, assistiamo inoltre a vere e proprie forme di sciacallaggio morale sulle disgrazie umane. Possiamo farci del male anche attraverso la disinformazione o la diffusione di pseudo giudizi religiosi: siamo solidali e interdipendenti nel bene e nel male. Certamente ci confrontiamo col mistero del dolore e della sofferenza. E per il credente, al cospetto di Dio si risolvono in più pressanti interrogativi. Ma il male fisico può essere spacciato come punizione divina? Da dove il rapporto di causalità? E da quali matrici di Dio si possono generare queste affermazioni se non da concezioni del divino inconsciamente distorte o volutamente manipolate?
Lo ha ribadito P. Cantalamessa nella profonda omelia pronunciata in San Pietro, il 10 aprile scorso:
Ma attenti a non ingannarci. Non è Dio che con il Coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica. Dio è alleato nostro, non del virus! “Io ho progetti di pace, non di afflizione”, dice nella Bibbia (Geremia 29,11). Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse essi più peccatori degli altri?
Il popolo davvero credente invece, come testimoniano le Sacre Scritture, sperimenta e conosce un’altra identità di Dio: redentore, liberatore, soccorritore, misericordioso, che non vuole la morte nemmeno del malfattore ma la sua trasformazione e vita! Il Padre non ci colpisce con la sofferenza, con la malattia, con i virus. Anche perché sappiamo molto bene che il dolore, la sofferenza possono indurci non a diventare più buoni, più compassionevoli, più solidali. Al contrario: possono incattivirci, renderci cinici, rapaci, aggressivi, violenti…
Qualcos’altro ci rende migliori: l’opera santa di Dio in noi, come ci manifesta Gesù, il vero interprete di Dio: Colui che non diffonde il male, ma la malvagità si carica sulle spalle, insieme al dolore – anche fisico – del mondo, e lo eleva, per amore, trasformandolo in Spirito. Dall’alto della Croce, testimoniano i Vangeli, “emise lo Spirito”!
In questi giorni di confinamento, sono di nuovo entrato in sintonia con la figura luminosa di Etty Hillesum che da tempo mi accompagna. Con una mia lettrice abbiamo recentemente ripercorso alcuni passaggi delle Lettere e del Diario divulgandoli in una serie di meditazioni brevi. Scrive tra l’altro Etty:
La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé, con tutto il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, e intanto che la si sopporta la nostra pazienza aumenta. Ma l’idea del dolore – non il dolore ‘vero’, che è fruttuoso e può rendere la vita preziosa –, quella va distrutta. E se si distruggono i preconcetti che imprigionano la vita come inferriate, allora si liberano la vera vita e la vera forza che sono in noi, e allora si avrà anche la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità. (Traduzione di Chiara Passanti, Adelphi)
È tempo allora di deporre il seme della vera forza dello Spirito che è in noi, di nasconderlo fiduciosamente e disporci alla nuova fioritura, agli sconfinamenti dei germi nuovi di vita dall’oscura zolla arata dal dolore.
Sento le campane risuonare e invitare al raccoglimento e alla preghiera. Intorno a me, il luogo liturgico – la Chiesa di sant’Ignazio nel cuore di Roma – è silenzioso: una quiete che dialoga con la calma esterna della piazza. L’aria è ancora sospesa in uno spazio dove sembrano interloquire soltanto le figure maestose degli affreschi barocchi di Andrea Pozzo e le statue degli angeli che decorano i solenni altari ai lati del transetto. Il portale è aperto e un senso di accoglienza pervade lo spazio…
Anche a me, sacerdote, ogni celebrazione in questo tempo di confinamento induce a vivere una presenza-assenza che prende forma interiore nella consapevolezza di far parte di un corpo: un corpo sociale, ecclesiale, un corpo mistico, costituito da amicizie e da affetti che abitano l’anima.
In piazza san Pietro, come nelle mie liturgie domestiche, questo corpo non è presente nella relazione fisica, ma nella comunione orante; l’esserci è celebrato a un livello diverso rispetto alla mera presenza corporea. Nell’arte, come nella religione, l’esperienza della presenza–assenza è comune e determinante: con la creatività dello spirito il linguaggio artistico dà forma all’opera d’arte, così come la preghiera, il linguaggio dell’anima, dà forma nel profondo alla relazione col Mistero e alla comunione dei fedeli.
Abbiamo riaperto la chiesa di sant'Ignazio all’accoglienza, alla preghiera, al culto comunitario. Nei giorni della Fase 1 noi sacerdoti abbiamo celebrato la Messa pro populo e molti l'hanno trasmessa in rete. Ora possiamo pregare liturgicamente cum populo e sperimentare una relazione viva, diretta con le persone, nella comunione sacramentale.
Celebriamo i santi Misteri con la solennità e il calore con cui amiamo vivere ciò che nella fede ci è più caro.
Possiamo finalmente cantare: “E quindi uscimmo a riveder le stelle."