Autore:
Gertrude Stein
Pubblicazione:
25 aprile 2017
Questa è la storia che conduce alla Everybody’s Autobiography, il volume di ricordi che viene presentato ora al pubblico italiano. Quando lo ha scritto, la Stein, nata nel 1874, aveva sessantasei anni. Era innamorata della vita (forse fu questo il segreto della sua eterna giovinezza); soprattutto era innamorata di tutto ciò che vive e si trasforma: del presente eterno della creazione. Perché questa grande ribelle, questa anarchica programmatica, è una delle figure più coerenti della storia letteraria di tutti i tempi: così mentre sgretola ogni possibilità di vita nella forma letteraria tradizionale (lei, che aveva per autore preferito Henry James), difende, contro certi suoi amici più negatori ma infinitamente meno creatori, la borghesia dalla quale è nata. Dice col suo caratteristico humour tra l’ingenuo e lo spietato: “[…] nessuno dei miei amici ammette di far parte della borghesia: qui bisogna essere o democratici o aristocratici, perché la borghesia è terra terra, materiale, senza desideri, senza illusioni, sempre monotona, sempre presente, sempre a ripetersi […]. Eppure affermo che una borghesia materiale, cosciente di sé, controllata dal solito legame della famiglia, è la sola cosa sempre umana, creatrice e degna di quella ripetizione eterna e monotona che è la vita”.
Sono alcune righe ricavate dal migliaio di pagine del The Making of Americans, e forse non furono tra le parole meno responsabili dell’improvvisa impopolarità della Stein presso le intellighentsie di tutto il mondo che seguì alla pubblicazione dell’Autobiografia di Alice B. Toklas e definitivamente a quella dell’Autobiografia di tutti. Quelle intellighentsie naturalmente hanno dimenticato con più facilità altre cose, a partire dal punto d’appoggio che avevano sempre trovato nel salotto di rue de Fleur, per arrivare via via agli innumerevoli “pezzi” di Gertrude in difesa degli artisti più rivoluzionari, fino alla decisa presa di posizione in queste memorie: “A che cosa serve esser giovani se si pensa come i vecchi”. Ma Gertrude è un personaggio coerente e ama l’eterno presente della vita come ama (o per poter amare) l’eterno presente della narrazione: Gertrude scrive soltanto “su ciò che esiste”.
Che questo dell’eterno presente è, come si è detto, uno dei suoi problemi centrali se ne accorgeranno i lettori di questo libro, dove ancora una volta risulta che il problema nacque in lei ancora ragazzina quando a Radcliffe le facevano fare gli esperimenti di scrittura automatica e invece Gertrude descriveva come personaggi i soggetti da esperimento. Era il periodo che William James raccoglieva prove e documenti per le sue teorie; e già si è detto come l’allieva si sia “fatta” alla scuola del maestro.
Certo è un problema legato da vicino all’altro assillante in Gertrude: quello dei limiti dell’universo. Anche questo è un problema nato in lei per tempo, forse insieme a quello dell’eternità che le venne suscitato dalla lettura del Vecchio Testamento. È un problema che nacque in lei per tempo e l’assillò per tutta la vita, fino a farle dire come in queste memorie: “Che la terra sia rotonda e nessuno conosca i limiti dell’universo è la sola cosa interessante sugli uomini e sulle donne”.
Se il lettore avrà notato questa frase sarà un po’ meno stupito del ritornello sparso lungo il libro, che la terra è rotonda, che la terra gira e così via (due anni dopo, come si vedrà, l’avrebbe risolto addirittura in un libro). Questo gettare e riprendere un tema fino a renderlo un filo conduttore è d’altronde tipico nella tecnica steiniana. Il lettore lo noterà soprattutto verso la fine dei capitoli, dove in una specie di “arpeggiato” finale tutti i temi sono ripresi e toccati; ma uno di seguito all’altro, appunto come in un accordo arpeggiato. Questo è particolarmente evidente alla fine del terzo capitolo, dove dalla “terra coperta di gente” a Bilignin, dal domestico indocinese alla partenza per l’America, tutti i temi sono sfiorati paratatticamente, come piace alla Stein: che non per niente quando improvvisava al pianoforte aveva cura di far andare le due mani indipendentemente l’una dell’altra (e solo sui tasti bianchi) in modo che mai si creasse un accordo di più note.
Che il mondo è coperto di gente ricorre nel libro con un’insistenza che se non fosse programmatica potrebbe parere monotona; e si riallaccia all’altro tema, che i cani non abbaiano più alla luna perché ormai c’è la luce elettrica. Il fatto è che queste memorie sono scritte nel 1936, e nello stesso anno Gertrude scriveva una “commedia”, Listen to Me (la Stein sperava di rappresentarla con la collaborazione di Picabia e del figlio di Renoir). Non è la prima volta che nel corso di un libro la Stein inserisce idee o temi che appartengono a commedie o poesie o ritratti di uno stesso periodo o di un periodo precedente. Esempio tipico è il romanzo poliziesco intitolato Blood on the Dining-room Floor: nel secondo capitolo il titolo di questo romanzo viene inserito due volte nella narrazione in un modo che certo riuscirebbe incomprensibile al lettore non avvertito; ed è una dimostrazione di più di come molta parte degli effetti straordinari della Stein vadano ricercati in questi accostamenti suggestivi o allusivi, quando non addirittura semplicemente sonori. Listen to Me, commedia in sei atti più un atto in cui fanno da personaggi i primi sei atti, è quello che in musica si chiamerebbe uno “studio” sulle “parole di una sillaba”; e certo non sorprende il culto della Stein per le parole di una sillaba date le possibilità di queste nella realizzazione degli effetti cui si è accennato. Non si tratta solo dei ricami metafisici creati dal to do; ci sono anche gli innumerevoli equilibri sonori creati dall’intreccio degli infiniti (monosillabi) e dei gerundi (bisillabi) e degli avverbi, quasi tutti brevi e sdruccioli, dolci come cioccolatini. Basta pensare al deliziosissimo crittogramma (l’unico che abbia mai composto, dice la Stein) riportato nel terzo e nel quarto capitolo: “I understand you undertake to overthrow my undertaking”, scritto in forma di quattro frazioni e con ritmo da nursery rhyme pura. Tutti problemi praticamente insolubili per il traduttore; il che non è certo un aiuto a capire questa che rimane uno degli autori fondamentali della letteratura moderna.
Non che queste memorie non abbiano un programma preciso. Non si tratta soltanto di una nuova ondata di pettegolezzi sulla generazione per cosí dire successiva a quella trattata nella Autobiografia di Alice B. Toklas. Il significato del libro è esplicitamente dichiarato nel terzo capitolo, dopo l’ammonimento preliminare delle primissime pagine sulla differenza tra autobiografia e conversazione (questo libro è una vera autobiografia e non soltanto una conversazione, come la Autobiografia di Alice B. Toklas). Soprattutto, questa Everybody’s Autobiography non è la storia di tutti come il The Making of Americans, dove ogni individuo era elemento di un gruppo, ma è l’autobiografia di tutti, dove non c’è nessuna connessione tra un individuo e l’altro; perché questa connessione non esiste, e il rapporto di ogni individuo con tutti e con ciascuno degli altri individui non interessa piú la Stein: la interessa soltanto il rapporto di ogni individuo con se stesso.
Queste dichiarazioni teoriche sono molto brevi e molto sparse nel libro. Piú frequenti sono gli accenni facili e divertenti alla sua estetica: la sua posizione di fronte al romanzo contemporaneo, il suo culto per le parole di una sola sillaba, la sua deduzione che i romanzi-fiume americani sono nati proprio da questo, che l’americano è una lingua composta da parole di una sillaba; o le sue teorie sul sostantivo, ad appoggio delle quali cita nel quarto capitolo, dopo aver tenuto al riguardo intere conferenze piú o meno esoteriche, la testimonianza delle Memorie di Grant; e via via che non si finirebbe piú.
Anche non si finirebbe piú di riferire le innumerevoli osservazioni che questa esule innamorata della patria registra a proposito dell’America. Aleggia su queste pagine, nonostante le continue dichiarazioni della scrittrice sulla sua felicità nel ritrovarsi negli Stati, una certa melanconia. Non è soltanto la melanconia di chi intuisce di vedere un luogo per l’ultima volta, ma è anche la melanconia di chi vede sciogliersi un sogno nutrito a lungo: nutrito non tanto artificialmente quanto sentimentalmente. La Stein aveva visto morire un secolo e ne aveva visto nascere un altro; insieme aveva visto morire una civiltà e ne aveva visto nascere un’altra. Ma con quella civiltà che era morta e con quella civiltà che era nata si erano frantumati i sogni che avevano creato l’America: l’immane sogno democratico, il cosmico sogno del benessere per tutti, il tragico sogno dell’eguaglianza universale. Gertrude, partita dall’America all’inizio del secolo (si stabilí definitivamente in Europa nel 1903) aveva le orecchie e il cuore pieni di questi sogni; e c’era Ford a cui aggrapparsi, il grande Ford e l’industrializzazione, che ancora non pareva una minaccia ma un dono per gli uomini: il dono di cose economiche fatte coi materiali migliori.
Il sogno si era frantumato nella mostruosa macchina maciullatrice dell’industrializzazione e gli uomini si rifugiavano ormai nella meccanica non perché ci credessero ma perché era la sola cosa eguale per tutti e quindi facile da capire; purché qualcuno pensasse per tutti. In realtà l’America appare alla Stein una specie di Inghilterra “quando era vittoriana”; una gran massa d’impiegati e di burocrati, un paese dove la libertà individuale è soffocata dal conformismo delle scuole piú o meno governative; insomma un paese maledettamente europeo con tutte le tare di una tradizione ormai soffocante.
Di questo la Stein non fa colpa all’America, ma ai suoi traditori, a chi non le permette di riallacciarsi a quella che è la vera tradizione americana: la tradizione della Guerra Civile e dei pionieri. Quando scopre che non c’è la luce elettrica nelle fattorie americane e non c’è la radio in tutte le camere negli alberghi d’America, la Stein piú che delusa è risentita contro le false propagande. Questa non è la vera America. La vera America è quella degli uomini che hanno inventato i grattacieli, per il desiderio di innalzarsi sulla terra piatta, allo stesso modo che si sono innalzati sulla terra piatta con le torri dei pozzi di petrolio. Quello delle torri, dice questa borghese ribelle, inimicandosi insieme i borghesi e i ribelli, è uno spettacolo pari nella sua memoria soltanto a quello della cattedrale di Strasburgo. Escono dalla terra, le torri dei pozzi, e cosí escono dalla terra i grattacieli, non si siedono sulla terra come gli edifici europei; i grattacieli escono dalla terra senza cornici in cima, senza niente a fermarli: perché nulla si deve fermare. I grattacieli e i pozzi di petrolio, le cattedrali e gli animali preistorici d’America, la sua tradizione, che la rende insieme medioevale e preistorica.
Ribelle e esule com’è, rimane un’americana incorreggibile. I suoi ricordi d’America si snodano nel paesaggio, le immense pianure e i fiumi immensi, lungo le incredibili strade americane senza pendenza, sulle quali si va in montagna senza cambiare marcia all’automobile – quelle strade che, uniche al mondo, vanno “da sé”, come già le antiche strade ferrate: non seguendo la città, ma seguite dalle città, dalle case di legno dipinte, con le loro strane finestre americane – e passano da un’automobile all’altra, da un garage all’altro, in questo che rimane il regno dell’automobile; un paese dove tutti sanno guidare, anche i ragazzini, tutti sanno guidare l’automobile: come in Francia tutti sanno guidare la bicicletta. Anche se la civiltà meccanica è finita: e gli americani ancora non lo sanno.
Cosí la Stein parte dall’America fiera del nuovo successo e di essere americana, felice di vivere e in pace con la vita, come lo è sempre stata.