Autore:
Jan Morris
Pubblicazione:
15 marzo 2005
Questo libro parla della città in cui sono nato e ho vissuto gran parte della mia vita. Leggendolo, prima di tradurlo, ho capito che l’autrice, gallese di nascita, inglese imperiale per formazione, cosmopolita d’elezione, era in sintonia con il mio modo di immaginare e amare la mia città. Tale impressione mi è stata confermata da tutti gli amici che mi hanno parlato di Trieste and the Meaning of Nowhere, dopo averlo letto nell’originale inglese o nella traduzione: Jan Morris ha capito molto a fondo l’argomento di cui parla. Il suo libro è un ottimo compagno di un viaggio (reale o immaginario) a Trieste e aiuta a spiegare quel fascino che la città esercita su chi la rievoca nel ricordo, dopo averla visitata. Jan Morris, insomma, ha scritto una lunga, bellissima dichiarazione d’amore per una città; ma l’autrice ci tiene a sottolineare che la sua devozione non va tanto a quella città edificata con quelle pietre e popolata da quegli abitanti, bensì a ciò che l’autrice chiama l’effetto Trieste, cioè a una particolare disposizione d’animo contemplativa, etica ed estetica, che elude le coordinate del tempo e dello spazio. Il “nessun luogo” di cui parla il titolo è appunto la negazione di ogni localismo, campanilismo e nazionalismo (quello che attualmente impavesa di tricolori il centro cittadino è un prodotto d’importazione ed è la negazione della specificità di Trieste); ed è il presupposto di un’esperienza epifanica, l’effetto Trieste appunto, che rivela la caducità degli Imperi e per questo ci seduce con le sue anticipazioni di una (non ancora confermata) “fine della Storia”.
La chiave di questo libro e della sua felice analisi della non-identità triestina (Slataper et Svevo docent) consiste nell’avere colto la specificità triestina nell’effetto surreale prodottosi quando tutto l’armamentario ottocentesco di un’improbabile cittadina da operetta, catapultato nella storia dall’attentato di Sarajevo del 1914, venne smembrato dalla deflagrazione della belle époque e finì per essere poi ricomposto a casaccio, all’inizio della Guerra Fredda, dallo scontro fra i due blocchi politici (che volevano imporre a Trieste rivendicazioni d’appartenenza di segno opposto, ambedue esclusive e proprio perciò inammissibili). Forse l’origine dell’”effetto Trieste”, che Morris ha riconosciuto con acuta sensibilità, consiste proprio in questo: nel sereno distacco di una città che si è lasciata alle spalle una gagliarda giovinezza e una splendida maturità, e accarezza con affettuosa ironia i frammenti del passato, sentendosi ormai felicemente lontana da ogni partigianeria e da ogni nazionalismo. I diciotto brevi capitoli del libro, che prendono idealmente spunto da altrettante cartoline d’epoca spedite da Trieste, nell’immediato dopoguerra, dal giovane ufficiale britannico James Morris (già: quella volta l’autrice si chiamava così ed era anagraficamente un uomo), ritraggono alcuni aspetti della composita identità di questo “porto di mare per metà reale e per metà immaginato” e, se non esauriscono la triestinità (manca, in particolare, quella Trieste più sanguigna e vitale, amata da Joyce, che nasceva nei quartieri operai dall’inestricabile intreccio fra l’identità slava e quella italiana e che prima il fascismo e poi l’afflusso degli esuli istriani avrebbero soffocato, senza tuttavia riuscire a cancellarla; manca anche la Trieste dell’antipsichiatria, dei matti “liberati” da Basaglia), propongono tuttavia una guida colta, puntuale, arguta e insomma molto godibile della Trieste del Novecento.
Il ritratto di Trieste delineato dalla scrittura leggera e maliziosa di Morris, viaggiatrice inglese che ha conosciuto la storia e gli uomini e non ha smesso di amarli, rende giustizia poetica a una città che ha visto tempi migliori eppure, proprio quando dà il meglio di sé, riesce a non prendersi troppo sul serio e mostra di saper vivere con ironia quella missione di nessun luogo che le è stata affidata dalla storia, a conclusione di una secolare tradizione di marginalità.