Traduzione da: inglese
Com’era, How it Was, eco nostalgica del beckettiano How it is, è l’omaggio della poetessa Anne Atik all’amico Samuel Beckett, artista carismatico e geniale che per lei e per il marito, il pittore Avigdor Arikha, altri non era che «Sam».
Da queste pagine emerge un ritratto dell’uomo Beckett, un irlandese trapiantato a Parigi, personalità spigolosa e fragile, capace di atti di assoluta liberalità e di altrettanto impenetrabili silenzi. Tutto ha inizio nel 1956, quando Sam e Avigdor si incontrano per la prima volta e parlano di teatro. Nel 1959 entra in scena Anne. Da allora le loro strade non si sarebbero più separate.
«Dopo quindici anni di memorabili conversazioni con Beckett, mi sono resa conto che non potevo più affidarmi alla memoria. L’indimenticabile stava diventando l’irrecuperabile»: è questa l’urgenza che nell’ottobre del 1970 spinge Anne Atik a prendere appunti dopo gli incontri con «quell’essere di rara intelligenza, erudito, appassionato, bello a guardarsi, ma soprattutto leale». L’autrice descrive le serate trascorse nella casa atelier, le musiche di Schubert e di Brahms, i versi di Hölderlin e di Goethe recitati all’unisono, i ricordi dell’infanzia e gli amici di Dublino, le partite a scacchi, le conversazioni sull’arte che si rispecchia nella scrittura.
Le annotazioni diaristiche scandiscono il passare del tempo. Di Beckett vengono tratteggiati lati più o meno noti: l’amore per lo sport, i rapporti con Joyce, il ruolo predominante dell’alcol, la connaturata eleganza, l’uso sapiente della voce, i versi recitati come fossero canto, la frugalità nel mangiare… Aspetti squisitamente umani, mai disgiunti però dalle sue profonde quanto improvvise speculazioni: «Tutta la scrittura è un peccato contro il vuoto di parole. È il tentativo di dare forma a quel silenzio. Soltanto in pochi, Yeats, Goethe, coloro che vissero a lungo, furono in grado di farlo, ricorrendo però a forme e finzioni narrative già note».
Il libro si suddivide sostanzialmente in tre parti: la prima è il racconto spesso aneddotico degli anni parigini, la seconda è un’analisi delle mai sopite passioni di Beckett per la recitazione, per Shakespeare, Yeats, la Bibbia, Johnson e Dante, la terza è la trascrizione quasi integrale del diario.
Il volume è inoltre una raccolta di corrispondenza inedita, di stralci di opere manoscritte, di lettere, cartoline e biglietti autografi, è un album di foto private, di scena e di nove ritratti che Arikha fece a Beckett, talvolta a sua insaputa, cogliendolo in un momento di concentrazione.
È stata proprio questa natura composita del testo a rappresentare la maggiore sfida traduttiva. Cercare di amalgamare stili e registri diversi, passare dal più piano racconto descrittivo alla narrazione diaristica, di per sé frammentaria e interrotta da subitanei salti temporali, alla traduzione di versi di Synge, Landor, Voiture, Apollinaire, Claudius, non sempre è stata impresa facile.
Nella resa diaristica spesso ho uniformato i tempi verbali, forzando un po’ la versione originale, per rendere più armonico l’insieme, senza però rinunciare allo stacco temporale, quando il brusco passaggio dal passato al presente sembra fissare la sensazione sulla pagina, rendendola palpabile.
Sfida ancor più grande è stato tradurre due testi che Beckett scrisse per l’amico Avigdor. Il primo, piuttosto breve, è presente nella versione francese e inglese. Il secondo, sulla percezione visiva, fu scritto nel 1981 ed è qui riprodotto nella versione dattiloscritta con annotazioni autografe. Il titolo oscillò tra Ceiling e Somehow again, ma la scelta definitiva cadde su Ceiling. Lo stile sincopato ed ellittico, accentuato dall’uso dei passivi e dalle cesure che troncano sintatticamente il periodo, hanno imposto la ricerca di un ritmo equivalente seppur diverso, forse lo stesso che Beckett, dotato di un intuito formidabile per le lingue, cercava quando tamburellava le dita sul tavolo per capire se una traduzione funzionasse davvero.