IT, un altro libro delle mutazioni Argomento: Extra

di Emiliano Sabadello
 scrittore


IT di Stephen King è un romanzo caleidoscopico, che muta prospettive, significati e linguaggio con la stessa intensità con la quale uno dei suoi personaggi principali, Pennywise il clown danzante, cambia faccia. IT è una storia sul mistero della crescita, ma anche su quelli dell’infanzia, della magia, del coraggio e della persistenza spirituale. Come ha giustamente messo in luce Nicola Lagioia in un suo articolo del 23 aprile 2016 su Internazionale, IT è “un libro considerato un classico della contemporaneità da milioni di lettori in tutto il mondo e un sottoprodotto culturale per una parte consistente della buona società letteraria”, concludendo il suo intervento in questo modo: “non commettete l’errore di sottovalutare Stephen King”. Cercheremo di non commettere questo errore.

Uscito trentaquattro anni fa, IT resta uno dei libri più importanti della vasta produzione del suo autore e può senz’altro definirsi una pietra miliare della letteratura cosiddetta di genere. È possibile, ci chiediamo, andare oltre queste categorizzazioni fisse e considerare l’opera e l’autore come grandi a prescindere dagli aggettivi che vi vengono apposti? Crediamo che un tentativo, serio, vada fatto, a cominciare dalla ricchezza del linguaggio e della prosa che troviamo non appena ci addentriamo in questo mondo fatto sì di paura e delle sue infinite forme, ma anche di una lingua e di una materia della narrazione che si compenetrano, come soltanto può avvenire sotto la penna di un grande scrittore, sul quale vanno senz’altro spese due parole.

Abbandonato dal padre, Stephen King ha vissuto un’infanzia felice, stimolato da una madre libera e da un fratello maggiore creativo. A suo stesso dire (Introduzione alla raccolta di racconti Al crepuscolo del 2008), King ha “vissuto una vita estremamente fortunata”, pur essendo passato attraverso i deserti dell’alcolismo e della dipendenza dalla cocaina e pur essendo rimasto quasi ucciso da un minivan in un incidente stradale nel 1999. Eppure, le paure che popolano le pagine del romanzo e la psicologia dei personaggi, nessuno escluso, non hanno una semplice radice autobiografica, rappresentando piuttosto paure sociali e storiche, assolutamente determinate, che possono essere tutte assommate sulla figura di Pennywise, un tipo da “sghigni”, secondo il linguaggio, mirabilmente tradotto da Tullio Dobner, di Richie Tozier, uno dei sette protagonisti del romanzo, i cosiddetti Perdenti.

I sette Perdenti sono interpretabili come altrettante parti e sfaccettature dell’interiorità di King stesso. Richie Tozier è il coraggio, Stanley Uris è la razionalità già adulta, Bill Denbrough è il desiderio, Ben Hanscom è la solitudine, Eddie Kaspbrak è il dolore, Mike Hanlon è il ricordo e Beverly Marsh è l’assenza. I Perdenti, che quando sono insieme non sono affatto tali, vengono ritratti a undici anni e a trentotto, seguendo in questo una specie di ciclo mestruale di It che si sveglia, e mangia, appunto ogni ventisette anni circa. It quando richiama i Perdenti, ormai adulti, per lo scontro finale, questi si trovano in quel particolare punto di crisi che è il “mezzo del cammin di nostra vita”, nel quale dobbiamo decidere, una volta per tutte, se affrontare le nostre paure oppure arrenderci a esse.

In questo circo itinerante della paura, nel fantasmagorico e multiforme scontro fra bene e male orchestrato nel romanzo da King, i Perdenti sono contrapposti, con i loro incastri perfetti e con la loro amicizia per la pelle, alla solitudine di It, di cui Pennywise ne è soltanto una versione sempre accettabile e plausibile. Ma chi è It? O meglio, che cos’è e che cosa rappresenta? Che realtà si nasconde dietro a questo secco pronome neutro? È una realtà che muta, che uccide e che per farlo sfrutta le paure delle sue vittime. È un mostro che si autoproclama eterno e che si contrappone alla misteriosa Tartaruga, la quale parla ai cuori dei Perdenti e, perché no, anche a quelli dei Lettori. It vive in diverse realtà contemporaneamente e, quando non è nella sua tana, nella quale ha una forma definita dal contatto con la materia, è a caccia, assumendo la forma che il cervello e le paure della sua vittima producono. Pertanto, è il Giovane Licantropo, è La Mummia, è il Lebbroso, è il Mostro della Laguna Nera, è Georgie, il fratellino di Bill Denbrough con il quale è cominciato tutto, è la Strega, e tanto altro. Ma soprattutto, è Pennywise, questo iconico personaggio su cui convergono tutte le altre forme, permeandole di sé con un pompon, con un colore, con la sua sagacia. King ha detto, in un’intervista del 2013, che scelse la figura del clown perché è ciò che spaventa di più i bambini e anche ciò, aggiungiamo noi, che maggiormente richiama una delle peculiarità di It, cioè quella di avere una faccia dietro ad un’altra faccia.

E poi, c’è Derry, il teatro dello scontro. Derry, che è It. It che è Derry. Con delle intuizioni di una modernità estrema, King lega le sorti di questa cittadina fittizia del Maine al mostro a cui è cresciuta intorno. Ma l’intero romanzo, che non mostra per niente i segni del tempo, nonostante la pessima, ultima, trasposizione cinematografica, ha un impianto e veicola dei significati di una modernità sconcertanti. In esso, pur se molte situazioni sono narrate dopo che sono accadute, King riesce a mantenere una suspense assoluta, tanto che arrivati ad un certo punto del romanzo non si può letteralmente smettere di leggerlo. In particolare, le ultime duecento pagine, dal tratto fortemente metafisico, sembrano essere un unico monolite, che se ne infischia della capillare divisione in capitoli e paragrafi pensata dall’autore. E quando si arriva in fondo, alla bellissima e struggente ultima pagina, non può non saltare alla mente quello che King stesso scrisse nel 1981, nel suo saggio Danse macabre, di uno dei suoi libri preferiti, Tre millimetri al giorno di Richard Matheson e cioè di “invidiare a tutti l’esperienza di leggerlo per la prima volta”.

(IT, Stephen King, traduzione di Tullio Dobner, Sperling Kupfer)

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