Ora che la vita riprende sembianze conosciute, ora che i ritmi della quotidianità sembrano pian piano impossessarsi nuovamente delle giornate, ora che si è messo in parte a tacere (o forse si è riscoperto) il senso della solitudine, è interessante guardarsi indietro, a un passato recentissimo e ancora fresco di emozioni, per osservare come il lockdown (parola notoriamente in voga) sia stato vissuto in altre parti del mondo, da chi la realtà la osserva da sempre con uno sguardo intenso e forse privilegiato. Sono diversi i libri che sono stati messi “in attesa” o che avevano appena raggiunto le agognate librerie per poi ritrovarsi improvvisamente in un tempo sospeso, in un’assenza-presenza da cui si spera che i più si possano essere salvati. Tra questi, poco prima della chiusura, c’è anche il libro d'esordio della scrittrice argentina Dolores Reyes, Mangiaterra, edito da Solferino. E così abbiamo pensato di fare un salto fino in Argentina per chiederle come ha vissuto questo momento, come donna, madre e scrittrice. E lei, persona disponibile e molto amabile, ha mandato le risposte alle nostre domande, alle curiosità che avevamo voglia di sondare.
Cosa vuol dire essere confinati in Argentina?
Da una parte, essere confinati, qui in Argentina, mi sembra qualcosa di necessario, dall’altra però si ha la sensazione che si tratti di un confinamento “a tempo”, nel senso che qui non abbiamo avuto un numero di decessi così sconvolgente come è accaduto nei paesi europei. A essere tanti, invece, sono stati i contagi. La differenza principale, però, è che si è prospettato un confinamento lunghissimo. Di certo qui a Buenos Aires, ma in generale in tutta l’Argentina, ci sono molte zone, molti quartieri, che vivono situazioni davvero complesse: mancanza di luce, di acqua e in cui gli abitanti si ritrovano in una condizione estremamente precaria per quanto riguarda il loro lavoro, la loro vita in genere; ovviamente questa mancanza dei servizi di base e il non avere un adeguato accesso all’alimentazione e a dignitose condizioni di vita rende molto molto difficile il confinamento.
E per uno scrittore, in Argentina, cosa vuol dire essere confinati?
Penso che noi scrittori abbiamo vissuto più o meno tutti la stessa situazione. Ci aspettava un anno, il 2020, in cui erano previste fiere del libro, festival, presentazioni, varie attività collegate, viaggi… e all’improvviso tutta la programmazione annuale è andata a rotoli. All’inizio speravamo che verso agosto o settembre la situazione sarebbe cambiata… ma non è andata così e non è facile ritrovare il modo di portare avanti le nostre solite attività. Quindi, certo, la cosa ci ha colpiti parecchio a livello lavorativo e ha colpito, oltre ai nostri, anche i movimenti dei libri! Ma poi abbiamo tutti cercato di ingegnarci trovando nuove e diverse strategie di scrittura più facilmente adattabili alla nuova realtà di confinati, appunto. È molto difficile perché, nella scrittura, ha una grande importanza l’esperienza diretta; faccio sempre un esempio: per me, camminare tra i fiori rosa dei palos borrachos è stato fondamentale per scrivere un capitolo di Mangiaterra, e lo è stato anche sedermi ad ascoltare direttamente le conversazioni degli alunni, dei ragazzi, delle bidelle o delle cuoche della scuola in cui lavoro… tutti questi dialoghi mi hanno dato delle idee che ho poi usato per scrivere dei racconti. A causa del lockdown, quest’esperienza diretta di relazione con l’altro si è spezzata, interrotta, e quindi bisogna mettersi lì a scrivere in altro modo e con livelli d’ansia e preoccupazione che prima erano ignoti e inusuali. Per cui è difficile, bisogna scrivere in un altro modo e non sempre funziona, non sempre si riesce, ma credo che valga la pena provarci; io mi sveglio presto tutte le mattine per mettermi lì a scrivere, per provarci, e devo dire che nel 90% dei casi ci riesco.
Cosa vuol dire per una donna, madre e scrittrice essere confinata?
Be’, come donna e madre, il confinamento è ancora più difficile perché fai di tutto per cercare di stimolare i tuoi figli, per incentivarli, aiutarli con la didattica a distanza, con i compiti… ma essendo rinchiusi da mesi e non avendo una prospettiva su quando potremo di nuovo uscire l’impresa si fa sempre più ardua. Sì, fare in modo che si mantenga alta la loro voglia di fare diventa un compito davvero complicato. Comunque, nonostante questo, come scrittrice cerco di essere sempre molto attiva e quindi continuo a lavorare, a scrivere, a creare nuovi tipi di testi; in questo periodo mi è capitato di scrivere spesso per realtà legate alla rete, che fanno riferimento soprattutto alla produzione letteraria e artistica di questo momento storico così particolare che ci tocca vivere.
Il tuo libro, Mangiaterra, aveva da poco visto la luce a livello internazionale. In che modo questo “stop” è andato a incidere sul suo possibile successo?
Nell’arco di un anno, il mio romanzo, Mangiaterra, mi ha dato una visibilità e ha raggiunto un numero di lettori che prima ovviamente non avevo e questo, di conseguenza, ha fatto sì che in molti mi abbiano contattato, molte realtà che hanno a che fare con il mondo della scrittura. Ora come ora sono presa da una marea di progetti letterari a cui sto partecipando: scrivo per alcuni giornali pezzi sulla pandemia, scrivo consigli di lettura o recensioni… sto scrivendo appunti sul confinamento per la rivista Anfibia. E tutto questo non sarebbe stato possibile senza Mangiaterra. Qui siamo alla quinta edizione, un’edizione di 5000 copie, che per il mercato argentino è davvero tantissimo; e tutto questo nonostante la lunga chiusura delle librerie; ora hanno riaperto e i lettori sono rimasti lì, cercano il libro, chiedono del libro, sono interessati; ed è un libro su cui hanno anche lavorato nelle scuole e persino all’università di Scienze Sociali, nell’ambito di un corso sulla comunicazione: se ne sono occupati questo quadrimestre e ora vogliono farmi un paio di interviste.
In fondo, anche Mangiaterra vive una sorta di confinamento, di isolamento, no?
Sì, Mangiaterra è una persona isolata, esce pochissimo da casa sua perché l’esterno è sempre ostile, duro, è quello stesso esterno a definirla in quanto Mangiaterra, come fosse una stigmate: hai un dono, ma questo dono porta con sé anche un enorme peso negativo. Direi che Mangiaterra è doppiamente confinata. Da una parte, a livello sociale, perché vive in un quartiere che è stato marginalizzato e in cui le condizioni di vita sono davvero molto precarie. E, dall’altra, è isolata anche all’interno di una casa dove gli unici rapporti sociali, gli unici legami, gli unici a entrare sono gli amici di Walter, suo fratello; sì, c’è anche Hernán, che però alla fine non resta con lei (e che è comunque un amico del fratello). Quindi sì, per la maggior parte del libro è isolata e ha contatto soltanto con i legami introdotti da Walter; e quando comincia a uscire con il poliziotto, Manuel, le uscite hanno sempre a che vedere con la risoluzione di casi a cui lei collabora: omicidi, femminicidi, persone scomparse.
Come pensi che si possa reinventare il mondo editoriale, se ritieni che sia necessario?
Sinceramente per quel che riguarda il mondo editoriale mi è un po’ difficile valutare la situazione attuale perché Mangiaterra è il mio primo romanzo ed è quindi anche la prima volta in cui mi relaziono con gli editori. Quel che posso dire però è che sono certa che le persone amano i libri, anche i ragazzi, i giovani, amano leggere e amano le belle storie. Per cui, quando tutto questo sarà finito, quando usciremo da questa crisi umanitaria ed economica, l’amore per le belle storie sarà ancora lì e continuerà a permetterci di vivere, attraverso la lettura, importanti esperienze vitali. Sono certa che i lettori torneranno ai loro libri.