Confinamento da Bruxelles, Belgio

Argomento: Confinamenti
Autore: Ana López-Yuste
Pubblicazione: 7 aprile 2020

Bruxelles #RestezChezVous
E poi, la sopravvivenza

Ana López-Yuste
Corrispondente da Bruxelles

Bruxelles, 6 aprile 2020

Da appena poche settimane, Bruxelles si è finalmente accorta dello stato di criticità in cui ormai ci troviamo, sprofondati nel confinamento.

La gente continuava ad andare a zonzo nei café, nei parchi, nei musei, nella moltitudine di festival, in massa, ingenuamente convinta che questa pandemia non avesse nulla a che fare qui, che Bruxelles fosse troppo lontana dall’epicentro di un virus che non ci riguardava. Nonostante le avessimo viste per tempo le orecchie del lupo, in un Paese fratello. Eppure.

Non abbiamo voluto vederlo, è nella natura dell’uomo. Non abbiamo nemmeno voluto ricordarci dei flagelli precedenti di questo virus. Ciascuna delle nostre sublimi nazioni occidentali si considera tanto unica, da non vederne risparmiata nessuna. Alla biologia non importa degli intrighi geopolitici e finanziari.

Il diniego, lo sentivamo per strada, nei parchi, ma anche nei rapporti sociali, al lavoro, nei primi giorni di allarme, con le gerarchie e la loro volontà di procedere quotidianamente in riunioni e conferenze, come se i microcosmi di aziende, ministeri e simili, avessero il potere magico di allontanare un virus tanto inopportuno. Era ancora mal vista e mal compresa da alcuni, la distanza fisica forzata, il bisogno di proteggersi. Nelle nostre certezze ci siamo sentiti urtati da sguardi stupiti, e l’istinto ha modificato il nostro comportamento.

La chiusura delle scuole è stata in gran parte il vero campanello d’allarme per tutti, a cui hanno fatto seguito le attività commerciali e i servizi. Il governo ha tentato, goffamente e in gran ritardo, di unirsi al gioco della sopravvivenza. Si è trovato in buona compagnia. La sopravvivenza è stata circondata dalla disinformazione nei media, da contraddizioni anche nel mondo politico e nella comunità scientifica, con ogni sorta di polemiche, di inesattezze. Di costrizioni. Ma di speranza.

Ormai, è innegabile non sentirlo questo divario profondo non appena usciamo per strada. Si tratta di uscite di approvvigionamento, per procurarci i prodotti di prima necessità, o per fare «un po’ di esercizio fisico», ma isolato, con le dovute precauzioni di distanza e in prossimità del domicilio. Di preferenza, non tutti i giorni. Ogni giorno di confinamento sarà un giorno di vittoria. Contro una malattia misconosciuta e molto difficile da mettere a fuoco, contro il dolore, contro la morte di massa, contro il flagello che avevamo conosciuto soltanto nei libri di storia. Eppure non così lontana.

Il sacrificio da fare sembra quello giusto, per allontanare ogni rischio dalla nostra umanità, sebbene il prezzo da pagare sia molto alto. Il confinamento diventa per forza di cose volontario oltre che forzato, prendiamo atto del valore di quella libertà individuale, tanto cara ai nostri occhi occidentali dei nostri rapporti con l’altro, del nostro rapporto con il mondo. Al di fuori di ogni preoccupazione puramente finanziaria, la società, qui e altrove, è adesso in uno stato di letargia a cui nemmeno noi, Europei, eravamo preparati. Tutto questo ci restituisce quantomeno una lucidità migliore, più giusta, ne abbiamo il tempo.

Il tempo per riflettere dolcemente, di abbandonarci. Il tempo dell’empatia per i nostri anziani, per quanti soffrono in una solitudine insopportabile, per i malati in generale e in particolare per quanti se ne prendono cura, per tutti quelli che devono esporsi. Centinaia, migliaia. A Bruxelles, a Milano, a Parigi, a Lione, a Madrid, a New York, a Teheran, a Wuhan… dappertutto.

In una di queste mie rare uscite in solitario, ho fatto un giro tra gli edifici dell’Università. Il vuoto schiacciava i sensi, come se si trattasse di un film dell’orrore, con un sole brillante sul catrame dei viali in un silenzio quasi parodico, insidioso. Su uno dei muri in cemento, una rotula nell’affresco di un artista belga che adoro: «Être moi, face au monde, ça allait de soi...» («Essere me stesso, di fronte al mondo, andava da sé...»), come una premonizione. Troppo forti, gli artisti. Ci salveranno anche questa volta.

Gli alberi e i loro fiori sono presenti più che mai, a esibire una bellezza quasi beffarda, e i canti degli uccelli così forti si sostituiscono al rumore delle automobili a ricordarci l’inizio di una primavera da non dimenticare mai.

Il tempo, se si è offerto a noi, ci permette anche di riflettere sugli altri. Le persone, tutti quelli che hanno fatto parte della nostra vita, più o meno vicini, a due isolati accanto, nella città accanto, nel Paese accanto, altrove. Quelli che conosciamo bene ma anche quelli che crediamo di conoscere. Non avrei mai immaginato i miei vicini ogni sera sui balconi o alle finestre in una sorprendente euforia. Verso l’altrui, poiché ne siamo tutti colpiti. L’altrui per riflettere delle enormi differenze culturali tra i continenti e attraverso la storia.

È tempo di scrivere, leggere, fare o ascoltare musica, guardare a rotazione i film preferiti, scoprire nuove passioni, ballare, fare l’orto, mangiare lentamente, vivere lentamente, comunicare, interessarci all’altro, trasformarci.

Senza moderazione.

Finalmente, imparare a cogliere questo stato d’animo del farniente che avevamo perso da tempo.

Il tempo, così prezioso, non dimentichiamoci della sua esistenza e più tardi, ricordiamoci – questa volta – della lezione appresa nel momento in cui ci siamo dovuti quasi fermare.

(Traduzione dal francese di Dori Agrosì)

Articolo in originale, francese:

Et puis, la survie 
Ana López-Yuste
Correspondant à Bruxelles

Bruxelles, 6 avril 2020

Il y a à peine quelques semaines, Bruxelles se réveilla enfin à cet état de gravité qui nous plonge désormais dans le confinement.

La population continuait à se rendre à leurs cafés, parcs, musées et autres festivals d’animation, en masse, naïvement convaincue que cette pandémie n’avait rien à faire ici, que cette ville était trop loin de l’épicentre d’un virus qui ne nous concernait pas. Malgré avoir vu les oreilles du loup très vite, dans l’un de nos pays frères. Et pourtant.

L’homme étant ainsi fait, nous n’avons pas voulu les voir. Nous n’avons pas voulu non plus, nous rappeler des fléaux qui ont précédé celui-ci. Chacune de nos sublimes nations occidentales se considère à telle point unique, qu’aucune n’aura été épargnée. La biologie n’a qu’à faire des enjeux géopolitiques et financiers.

Ce déni, il était ressenti dans les rues, dans les parcs, mais aussi dans les rapports sociaux, au travail, les premiers jours d’alerte, avec des hiérarchies qui voulaient continuer leur quotidien, leurs réunions et autres conférences comme si les microcosmes des entreprises, ministères et autres, avaient un pouvoir magique d’éloigner ce virus si inopportun. Certains nous sommes heurtés à des regards étonnés parce que notre instinct avait modifié notre comportement, c’était encore mal vu et mal compris, cette distance physique forcée, ce besoin de se protéger.

La fermeture des écoles a été, en grande partie, la vraie sonnette d’alarme pour notre société. Les commerces et autres services ont suivi. Le gouvernement a essayé, maladroitement et bien que très tard, de rentrer dans le jeu de la survie. Il est loin d’être le seul. La survie est entourée de désinformation dans les médias, de contradictions venant aussi par le monde politique et par la communauté scientifique, de polémiques de toute sorte, d’inexactitudes. De contraintes. Mais d’espoir.

Désormais, on ressent indéniablement ce décalage profond dès que l’on sort dans les rues. Ce sont des sorties de ravitaillement, pour avoir des produits de première nécessité, ou pour «faire de l’exercice physique », mais isolé, avec les précautions de distance qui s’imposent, à proximité du domicile. Si possible, pas tous les jours. Chaque jour confiné serait un jour gagné. Contre une maladie méconnue et très difficile à cerner, contre la douleur, contre la mort massive, contre un fléau que nous n’avions connu que dans les livres d’histoire. Pourtant pas si lointain.

Cela semble un prix juste, pouvoir éloigner tout cela de notre humanité, même si le prix à payer est pourtant bien cher. Le confinement devient, par la force des choses, volontaire en plus que forcé, et nous prenons conscience de la valeur de notre liberté individuelle, si chère à nos yeux occidentaux, de nos rapports à l’autre, de notre rapport au monde. En dehors de toute préoccupation purement financière, notre société, ici comme ailleurs, se trouve maintenant dans un état de léthargie à laquelle nous, Européens, n’étions pas, non plus, préparés. Cela nous rend néanmoins une lucidité plus juste, nous avons le temps.

Le temps de réfléchir doucement, de nous laisser aller. Le temps de l’empathie pour nos aînés, pour ceux qui souffrent dans une solitude insupportable, pour les malades en général et pour ceux qui les soignent en particulier, pour tous ceux qui doivent s’exposer. Des centaines, des milliers. A Bruxelles, à Milan, à Paris, à Lyon, à Madrid, à New York, à Téhéran, à Wuhan... partout.

Je me suis donc rendue, dans une de ces très rares sorties en solitaire, au site des bâtiments de l’université. Le vide écrasait les sens, comme s’il s’agissait d’un film d’horreur, avec un soleil brillant sur le goudron des allées dans un silence presque plaisant, insidieux. Sur l’un des murs en béton, une rotule en forme de fresque d’un artiste belge que j’adore : «Etre moi, face au monde, ça allait de soi...», comme une prémonition. Trop forts, les artistes. Ils nous auront bien sauvés cette fois-ci aussi.

Les arbres avec leur fleurs sont plus présents que jamais, exhibant une beauté presqu’insultante, et ces chants d’oiseaux si distincts remplacent le bruit des voitures rappelant le début d’un printemps que nous ne devrons jamais oublier.

Le temps, s’il s’est offert à nous, il nous permet aussi de réfléchir sur les autres. Les gens, tous ceux qui ont fait partie de notre vie, plus ou moins proches, vivant deux rues à côté, dans la ville d’à côté, dans le pays d’à côté, ailleurs. Ceux que nous connaissons bien mais aussi ceux que nous croyons connaître. Jamais je n’aurais imaginé les voisins dans une euphorie étonnante chaque soir dans leurs balcons et leurs fenêtres. Sur autrui car nous sommes tous touchés. Autrui pour réfléchir à nos différences culturelles énormes entre continents et à travers l’histoire.

Il est temps d’écrire, de lire, de faire ou d’écouter de la musique, de revoir en boucle nos films préférés, de découvrir des nouvelles passions, de danser, de jardiner, de manger lentement, de vivre lentement, de communiquer, de s’intéresser à l’autre, de se transformer.

Sans modération.

Enfin, d’apprendre à profiter de cet état d’esprit du farniente que nous avons perdu depuis longtemps. Le temps, si précieux, n’oublions pas son existence et plus tard, rappelons-nous – cette fois – des leçons apprises quand il a failli presque s’arrêter.