In centro a Pallanza, nella libreria Spalavera dal commercio di libri usati e fuori catalogo, ascoltiamo la conversazione tra Silvia Pareschi e Michael Jakob mentre presentano Fra le righe (Silvia Pareschi, Laterza, 2024), un libro sulla traduzione letteraria.
Non un saggio di teoria da esame universitario, bensì un testo scritto in prima persona sulla pratica del tradurre spiegata con esempi concreti, su come ogni traduttore faccia esperienza del proprio metodo, libro dopo libro.
La teoria su cui abbiamo sgobbato tanto e di cui si è scritto fin troppo forse, sta cedendo sempre più il passo al carteggio tra chi traduce e chi scrive, diventando un argomento di studio approfondito e affascinante nell’ambito della traduzione letteraria.
A inviare la prima missiva è il traduttore. A un certo punto il lavoro si blocca davanti al mistero di una parola. Comincia la lunga fase del rompicapo. Nonostante i molti tentativi infruttuosi non ci si può arrendere, non si può, piuttosto si prosegue mettendo quella parola in standby ai prodigiosi effetti della decantazione. Alla fine una lampadina si accende, a illuminare la fonte della fonte. L’autore. A questo approdo bisogna aspettarsi e attenersi a ogni tipo di risposta senza dare per scontato che tutti gli autori siano magnanimi.
Come ci racconta Silvia, l’esperienza insegna che alcuni non collaborano affatto. E siamo punto a capo. Altri rispondono, ma suggeriscono di consultare il dizionario. E siamo punto a capo, nel vaglio della soluzione migliore. C’è chi invece instaura un dialogo, e anche chi si dimostra scrupoloso, accoglie i dubbi disseminati lungo il testo per essere certo che il lavoro stia procedendo bene.
In un certo modo torna sempre utile la teoria, una fra mille ad esempio è l’infallibile teoria di Italo Calvino sulla limpidezza della scrittura. Non è limpido stendere una patina di sovrastrutture, come l’italiano forbito perché cambia le sfumature, deforma il testo con una lingua trapassata. Di ogni opera bisognerebbe rispettare la sua contemporaneità. Come fare? Silvia ci spiega il suo metodo, quello di rimanere «aderente» allo stile dell’autore. Ci spiega che Hemingway, per esempio, dallo stile scarno, respinge in partenza gli orpelli della scrittura letteraria. Torna al riferimento su Italo Calvino, alla sua scrittura molto chiara, al suo famoso adagio da traduttore nel sostenere che tradurre è il miglior modo di leggere un testo e rispettare le intenzioni dell’autore.
Alla domanda di Michael Jakob mentre le chiede come sia arrivata alla traduzione, Silvia Pareschi ci racconta dei suoi esordi. In partenza, da ragazza, sognava di diventare traduttrice per ritradurre i classici della letteratura russa, scontenta delle traduzioni reperibili in quegli anni. Si iscrive quindi a russo, studia molto, ma imparare quella lingua non le riesce. Ritenta con l’inglese e scopre la grande passione che non era scattata con lo studio della lingua russa. Studia a bottega da Anna Nadotti e da Marisa Caramella, la sua attività comincia sotto la loro guida – e nientemeno – con Le correzioni di Jonathan Franzen per Einaudi. Da allora traduce principalmente dall’inglese americano.
Se leggiamo le prime traduzioni dei classici non possiamo darle torto, troviamo in effetti un registro ricercato, lo stesso che nel testo originale in effetti non c’è. Negli anni Venti era importante e lecito dare alla traduzione una lingua letteraria alta. Oggi vale il contrario, si preferisce il metodo filologico. Portare l’italiano a una lingua alta corrisponde a adattare, assimilare, addomesticare, non a tradurre. Oggi tradurre si accorda più con aderire, sebbene con equilibrio. Il traduttore ha rispetto per il testo fonte e per tutti i suoi elementi. Oltre alle parole, anche la prosodia e la punteggiatura ricreano il ritmo, l’effetto di partenza. Non per ultimo, il tentativo di rimescolare la frase nella forma attiva, transitiva, efficace, chiara, più comune alla sintassi italiana.
Se prima si preferiva arginare una parola intraducibile con la scelta di un sinonimo, oggi si mette un corsivo in lingua come spia di qualcosa che non appartiene all’italiano.
Come sottolinea Michael Jakob, si profila un’etica del lavoro, si è più onesti con il lettore italiano, si ha fiducia in lui. Di fronte al corsivo di una parola sconosciuta, il lettore prende consapevolezza di trovarsi immerso tra le pagine di una cultura altra, felicemente liberato dall’inganno dei sinonimi è finalmente all’avanscoperta di nuovi territori.
Nel ripercorrere le prime traduzioni di Hemingway, già nella sintassi e pertanto al di là del lessico, emerge l’evoluzione cronologica della lingua italiana forbita. Il lavoro di ritraduzione di Silvia Pareschi è stato di aderire allo stile e alla sintassi dell’autore, sebbene quest’ultima sia del tutto diversa dalla nostra. Ci spiega che le frasi nell’originale in inglese sono molto brevi, secche e ritmate, non mancano i periodi molto lunghi senza punteggiatura o con un uso particolare della punteggiatura. Nel forzare l’italiano alla sintassi inglese di Hemingway ha ottenuto un italiano non certo standard, ma fedele allo stile connotato di questo autore.
La lingua di una traduzione invecchia – si dice – mentre l’originale rimane senza tempo. In realtà la lingua italiana si evolve, lascia traccia nella diacronia di una traduzione. L’inglese di Hemingway, non vecchio bensì giornalistico, basico, con parole e frasi brevi è attuale anche oggi. Non richiede un cambiamento di registro, ma di aderirvi per ricreare l’effetto dell’originale.
Una traduzione datata mostra che ogni epoca ha i suoi limiti, indiscutibilmente tecnologici. Possiamo immaginare quando questo mestiere richiedeva ai traduttori giornate intere da trascorrere in biblioteca con carta e penna a fare ricerca. Non avevano il cursore, noi invece sì, ma il fattore tempo oggi come allora ancora non ci basta.
Quello che per decenni abbiamo saputo che fosse un «delfino» nella traduzione di Fernanda Pivano del romanzo Il vecchio e il mare, è in realtà una «lampuga» che in inglese sì, si chiama dolphin e verrebbe spontaneo pensare a un delfino, ma è un calco e Silvia Pareschi ci spiega perché non si tratta di un dettaglio banale. A venirle incontro è stato il paragrafo in cui lo stesso Hemingway – nel romanzo stesso – descrive il dolphin come un «pesce» «dorato», «con le branchie» e «commestibile». Il delfino invece è un «mammifero», è indiscutibilmente «grigio», «non ha le branchie» e per diversi motivi «è vietato mangiarlo». Leggiamo che Santiago mangia un delfino; in realtà Santiago mangia una lampuga, sebbene sia in effetti poco conosciuta, è un pesce, commestibilissimo, dorato e con le branchie.