Bruno Berni è nato a Roma nel 1959 e qui ha studiato letteratura tedesca e letterature nordiche. Ha iniziato a tradurre nel 1986, e da allora ha pubblicato moltissimo, fra romanzi, raccolte di racconti e di poesie, opere teatrali, qualche libro per bambini, ampie scelte di liriche in riviste, epistolari e altro, prevalentemente di autori danesi e scandinavi. Oltre a tradurre, ha sempre scritto di letterature nordiche: saggi 'scientifici', articoli di giornale, voci d'enciclopedia, recensioni. Alla traduzione ha sempre affiancato la ricerca e per qualche anno anche la didattica, insegnando letteratura danese all'Università di Urbino e lingua danese alla LUISS di Roma, e queste due ultime attività, la ricerca e la didattica, lo affascinano molto. Ma in realtà la sua occupazione primaria è un'altra: da molti anni lavora come bibliotecario all'Istituto Italiano di Studi Germanici di Roma, perciò in un certo senso, dalla traduzione alla collocazione sullo scaffale, segue l'intero iter del libro.
Traduttore dal danese. Forse una rarità, o quasi. Come hai deciso di imparare questa lingua?
Abbastanza una rarità, è vero, e tutto sommato è una sensazione piacevole. Non tanto, come si penserebbe, per la condizione lavorativa con limitata ‘concorrenza’ – che pure è un aspetto positivo – quanto piuttosto per la consapevolezza di appartenere a un ristretto gruppo di sfollati che in giro per il mondo si occupa di diffondere la letteratura danese in tante lingue, ovvero di fare da cassa di risonanza a una letteratura che senza l’apporto di quella piccola armata sarebbe prerogativa di poco meno di sei milioni di parlanti. Poi è un vero piacere che il governo danese abbia una politica culturale che vizia quello sparuto manipolo, e nel corso degli anni – fra inviti alle fiere del libro e seminari vari – ha fatto nascere fra molti di noi delle sincere amicizie. Tutto questo è un punto in più che mi spinge a chiedermi cosa mi sarei perso se quel giorno, tanti anni fa, non avessi scelto di affiancare al tedesco lo studio delle lingue nordiche. Perché l’ho fatto? In tutta onestà fu un caso: studiavo tedesco, appunto, e dovevo scegliere un’altra lingua. L’inglese era troppo affollato per il mio carattere, le nordiche erano ‘a misura d’uomo’. Una scelta d’istinto. Solo in seguito mi è tornata alla memoria una serie di ‘cose’ nordiche che da piccolo mi avevano affascinato in maniera particolare nelle mie letture, soprattutto in Verne.
Ti capita di avere la curiosità di sapere come è stato tradotto in un’altra lingua uno stesso romanzo che tu hai tradotto in italiano?
Un tempo mi capitava di sbirciare le traduzioni nelle lingue che bene o male conosco. Ora non più, ho capito che in fondo non è utile, che ci sono anche modalità diverse nel trattamento del testo, e che in fondo la versione italiana devo farla io, se possibile a mente pulita. Poi ormai si lavora spesso a ritmi così serrati che talvolta non solo è impossibile trovare la traduzione, ma lo stesso testo originale non è ancora uscito e non di rado lavoro sull’ultima bozza. Però i testi ai quali spesso lavoriamo contemporaneamente sono fonte di lunghe conversazioni con il già citato manipolo di traduttori di altri paesi e spesso i problemi sono comuni e se ne parla con piacere.
Quanto sei soddisfatto di quello che traduci?
Sono abbastanza soddisfatto. Farei volentieri più classici, mi piacerebbe fare molta più poesia, ma come dire… questo è un lavoro, l’attività la fa il mercato e al traduttore fa anche bene cambiare genere, variare il registro. Però differenzio molto le mie proposte, le distribuisco in base alle caratteristiche dell’editore, cerco di mantenere costante il rapporto percentuale fra letteratura di genere, classici moderni, poesia, mantengo una buona dose di progettualità, che ormai spesso è prerogativa della piccola editoria. La mia idea è che il lettore italiano legge ormai le stesse cose che ha in mano il lettore danese e le legge più o meno nello stesso momento, ma quello che gli manca è la base, il passato: buona parte del Novecento danese è stata ignorata in Italia, per non parlare dei grandi classici dell’Ottocento. Nel mio piccolo provo a rimediare a questa lacuna, per esempio recuperando titoli dimenticati.
Di solito sono gli editori che ti chiedono una traduzione o il contrario?
Di solito c’è un equilibrio fra le due cose. Come ho già detto, ho una linea che seguo, parallelamente alle commissioni che ricevo. Perciò in qualche modo fra le cose che traduco c’è comunque una percentuale abbastanza alta di cose che propongo io. Seguo il mercato ma seguo anche i miei gusti e le mie letture personali. Inoltre bisogna anche tener conto che traducendo dal danese, ovvero da una lingua piuttosto rara, per molti editori ho spesso anche la funzione di lettore per valutare l’opera che altrimenti non potrebbe essere letta: nessun editore ha persone interne in grado di leggere una lingua nordica. Poiché come lettore sono molto severo, in genere finisco per tradurre cose che in qualche modo mi piacciono. Ma non sempre, naturalmente…
Quanto cambia in una traduzione il fatto di conoscere l’autore e tradurlo?
Conoscerlo personalmente? Non serve certo a chiedergli soluzioni per la traduzione. Ma la Danimarca è un paese piccolo, Copenaghen è una città di dimensioni ridotte, finisco per conoscere tutti gli autori (viventi) che traduco. Molti li conosco già prima di tradurli per la prima volta. Del resto ho vissuto per lunghi periodi nella capitale, ci sono un paio di scrittrici molto in voga che conoscevo prima che diventassero scrittrici, mentre lo stavano diventando, mentre io stesso diventavo traduttore.
Incontrare uno scrittore significa anche capirlo un po’ di più, sapere cosa pensa, come agisce, conoscere la sua gestualità. Soprattutto nella poesia può essere determinante avere quelle sensazioni in più che non derivano solo dal testo scritto. Poi capita anche di lavorare avendo in mente l’autore, capita di fare della traduzione quasi un omaggio alla persona, un gesto di amicizia, di stima, il risultato di un’affinità che rende il lavoro un’esperienza, come mi accade spesso con un poeta che è anche un amico come Morten Søndergaard: è un lavoro senza fine, perché mi capita di tradurre le sue poesie prima che siano stampate, talvolta prima che raggiungano la forma definitiva. Ma conoscere uno scrittore può significare anche altro, per il destino di una traduzione. Per esempio ho in corso da anni – la riprendo in mano di tanto in tanto – la traduzione della Valle delle farfalle della grande Inger Christensen, un testo difficile, una corona di sonetti, ovvero quindici sonetti legati, e ricordo le lunghe conversazioni con lei sull’opportunità o meno di tradurre in rima. Lei riteneva che non fosse necessario, mentre la mia posizione era che il sonetto è una forma di origine italiana e come tale dovevano essere sonetti veri, come del resto sono in danese, sebbene questo renda molto più difficile e lunga la traduzione. Mi promise che avremmo fatto delle letture insieme, che avrebbe imparato a leggerlo in italiano. Quelle letture non le abbiamo fatte, Inger Christensen morì poco tempo dopo, la traduzione ha perduto la sua motivazione, il testo è fermo. Conoscere uno scrittore significa anche questo.
Come spieghi il successo della letteratura scandinava, soprattutto noir?
Il ‘giallo’ nordico è un brand riconoscibile fin dagli anni Sessanta, da Sjöwall e Wahlöö: la sua esplosione recente in Scandinavia, più o meno alla metà del primo decennio del nuovo millennio – ma già da diversi anni esistevano il fenomeno Mankell e casi isolati come Il senso di Smilla per la neve – ha avuto come naturale conseguenza una diffusione molto ampia, come un tempo era molto ampia la diffusione del poliziesco di stampo anglosassone. L’aspetto molto positivo è che l’ondata di gialli nordici ha portato con sé la riscoperta di quelle letterature, la nascita di un’ampia attività di scouting, finalmente la definitiva consapevolezza che al nord non esistono solo romanzi di pescatori e atmosfere bergmanniane, ma una produzione letteraria ricca, di elevata qualità, tutto sommato non troppo lontana dalla nostra cultura. A guardare bene sugli scaffali delle librerie si trovano moltissimi gialli nordici, ma c’è anche molta letteratura scandinava non di genere.
Ciascuno di noi interpreta il testo attraverso la propria sensibilità, adattandolo alla propria lingua senza sfigurarlo. Nel caso della letteratura danese, qual è il tuo compromesso di fronte ai limiti grammaticali, semantici e non per ultimi culturali, scegli di dire la stessa cosa o quasi la stessa cosa?
Cerco di dire la stessa cosa. Anche se la lingua è diversa. Ma un testo non è solo lingua: un testo è parole, sonorità, sensazioni, è frutto della cultura che c’è dietro. Cerco di mettere il testo di origine sul piatto di una bilancia e poi di riempire l’altro piatto con il mio testo fino a raggiungere l’equilibrio migliore che riesco a ottenere. Qualche volta è più facile, qualche volta è più difficile, anche per un’affinità o meno con il testo, ma questo fa parte del gioco.
Dopo i diversi premi ricevuti all'estero, cosa significa per te aver ricevuto in Italia il Premio Von Rezzori 2012?
È una grandissima soddisfazione, un onore, un po’ mi spaventa anche. Ho ricevuto premi in Danimarca, sono molto fiero di averli avuti ed è bello che un paese abbia un occhio di riguardo per chi si occupa della sua cultura. Ma sono italiano e in Italia non avevo mai avuto niente. Del premio sono felice e sono felice che – mi sembra – questo paese apprezzi finalmente chi fa questo lavoro: vedo diffondersi premi, incontri, dibattiti sulla traduzione, vedo aumentare la presenza di questo importante mestiere sulla scena pubblica e credo che il ruolo del traduttore (che spesso, appunto, ha anche una funzione che va oltre la traduzione) nel processo editoriale sia fondamentale. Manca ora un riconoscimento economico soddisfacente a questo ruolo. I traduttori di lingue nordiche sono – giustamente – una riserva sufficientemente protetta, ma per altre lingue più diffuse ho sentito di tariffe che dovrebbero far riflettere…