Com’è cominciata la tua attività di traduttore e da quali lingue traduci?
Per anni, lavorando in teatro, ho tradotto testi e drammaturgie per produzioni mie o per le quali lavoravo, sempre per esigenze interne, spesso senza compenso. Nel frattempo ho preso la laurea in lingue, laureandomi in portoghese con una tesi sulla comparazione di traduzioni. Quando il mio primo figlio stava per nascere e la vita di tournée ha cominciato ad andarmi stretta, è stato naturale bussare alla porta di alcune case editrici romane (Roma è la città dove vivo) per vedere se c’era modo di collaborare. Dopo un po’ ho cominciato.Traduco dal portoghese, dall’inglese e dal francese.
L’attività di attore professionista quanto ti aiuta nell’interpretazione dei testi da tradurre? Quali sono le differenze sostanziali tra la traduzione di un testo per la recitazione e un romanzo?
Mi aiuta moltissimo, in due sensi. Innanzitutto a evitare un equivoco molto comune per cui non si considera il lavoro del traduttore all’interno della sua natura di interprete, come un attore, appunto, o un solista che esegue un testo musicale, cosa niente affatto scontata perché troppo spesso al traduttore, forse per il fatto di muoversi – come l’autore – all’interno del mezzo scritto, viene negata la prima caratteristica di ogni interpretazione, quella cioè di essere una fra le tante possibili, e gli si chiede di rendere l’opera in toto (qualsiasi cosa si intenda con questa espressione): pretesa impossibile e perfino assurda per qualunque altro interprete. In secondo luogo mi ha aiutato ad ascoltare il testo nel senso fisico del termine, a dargli voce. Sentire le voci, i suoni e i ritmi di cui ogni testo si compone è il punto di partenza imprescindibile – secondo me – per poterlo tradurre. La differenza fondamentale tra la traduzione di un romanzo e quella di un testo teatrale, poi, credo stia nell’essere coscienti che nel secondo caso la nostra non sarà l’unica interpretazione subita dal testo. Poi vengono regista e attori. Personalmente significa che quando traduco per il teatro lascio il testo molto più ‘aperto’, nel senso di una partitura jazz.
Una traduzione deve condurre il lettore al testo originale o deve restare invisibile?
Penso sia un falso problema. Se si parte dall’assunto che ogni traduzione è un’interpretazione, va da sé che non si può tradurre tutto ma bisogna fare una serie di scelte, determinate volta per volta dal tipo di testo che si vuole tradurre e dal pubblico per cui lo si traduce. Un pianista non esegue allo stesso modo la sonata op.111 di Beethoven o un preludio di Gershwin, né suona un pezzo alla stessa maniera nella Salle Pleyel o nella cappella del Quirinale. Allo stesso modo un traduttore deve avere ben chiaro cosa traduce e per chi lo fa. Dopodiché decide, insieme al committente ma in piena autonomia interpretativa.
In questi ultimi anni i traduttori sono più presenti come relatori e hanno più visibilità, a tuo avviso cosa deve ancora cambiare?
Moltissime cose, che qui non c’è lo spazio di enumerare. Oltre ai pregiudizi di cui sopra a proposito della figura stessa di chi traduce, i traduttori italiani sono sottoposti a un trattamento economico e contrattuale che ci colloca all’ultimo posto in Europa, sotto tutti i punti di vista. La situazione sembra cambiare, ma personalmente non mi fido. È troppo comodo mantenere interpreti qualificatissimi a un regime contrattuale pessimo con la scusa che fanno un lavoro bello. Per fortuna le cose cambiano nella coscienza dei traduttori stessi. La Sezione Traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori ha aumentato gli iscritti di quasi il 70% nell’ultimo paio d’anni. Questa mi sembra l’unica nota davvero lieta.
Quali sono secondo te i consigli da dare a chi sta studiando per diventare traduttore letterario?
Chi sta studiando per diventare traduttore non ha bisogno dei miei consigli. Siamo noi ad aver bisogno di loro. L’unica cosa che mi sento di dire è di non aver paura di proporsi. Per lavorare bisogna farsi vedere, altro che traduttori invisibili. In bocca al lupo!