Maria Antonietta Saracino è anglista e insegna presso il Dipartimento di Anglistica dell’Università di Roma “La Sapienza”. Si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo (Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad; testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn. Ha curato Africapoesia, all’interno del festival Romapoesia del 1999. Ha pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de Il Manifesto e con i programmi culturali di Radio3.
Doris Lessing non ama che si parli di lei, ma della sua scrittura. Credi che sia questo l'ingrediente che l'abbia portata al conferimento del Nobel?
Credo che questo Nobel le fosse lungamente dovuto e per una serie di ragioni, prima fra tutte il fatto che Doris Lessing ha attraversato un secolo intero riesprimendone narrativamente nodi e contraddizioni; scrivendone ininterrottamente, assumendo su di sé il ruolo di osservatore critico e attento di quanto la circondava, senza nulla concedere a mode o a gusti passeggeri. E poi perché i suoi romanzi hanno segnato dei punti di svolta esistenziali per molte generazioni, soprattutto di donne.
Tradurre i suoi romanzi in italiano è stata una tua scelta oppure è un'autrice che ti è stata proposta?
Ho tradotto solo tre sue opere e tutte e tre per una mia scelta, perseguita con tenacia.
Intanto va detto che devo alla lettura di un suo romanzo il desiderio di tradurre. Ero in Inghilterra, subito dopo la laurea, insegnavo italiano all’Università di Sheffield e mi ero iscritta al primo M.A. –Master of Arts- in letterature di espressione anglofona. Gli scritti africani di Doris Lessing, che all’epoca consistevano nel suo primo romanzo, The Grass is Singing e in alcune raccolte di racconti ambientati in Rhodesia del sud, facevano parte del programma del Master, così come le opere di tutti gli autori africani che scrivevano in inglese. The Grass is Singing mi colpì profondamente, mi emozionò, facendomi venire il forte desiderio di prestargli le mie parole in italiano. Anni più tardi ne parlai con Laura Lepetit de La Tartaruga, l’unico editore che conoscevo, per la quale avevo già tradotto e curato Il diario di Alice James, la sorella di Henry James. Ci misi molto a convincerla, perché a Lepetit quel romanzo non piaceva. Poi acconsentì, ne fu molto felice, e non ha mai smesso di ristamparlo. Successivamente, sempre con La Tartaruga ho pubblicato la traduzione di una autobiografia di Doris Lessing, quella raccontata attraverso i gatti della sua vita. Si intitola Gatti molto speciali. In questo caso non dovetti faticare a convincere l’editore che era, ed è, una amante dei gatti, mentre a me all’epoca non piacevano particolarmente. Però quel testo era così coinvolgente, che mentre lo traducevo cominciai a guardare i gatti con gli occhi di Lessing, finendo per farmi adottare da uno di loro. Anni più tardi Feltrinelli mi contattò per offrirmi la traduzione di un romanzo di Lessing, ma si trattava di un testo che non mi interessava. Chiesi allora se invece di quel romanzo non potessi tradurre il primo volume della sua autobiografia, Under My Skin, che era appena uscito e mi piaceva immensamente. Accettarono.
Lavorare sulla sua scrittura è stato un lavoro coinvolgente?
Per me lo è stato, moltissimo, ma - come ripeto - ho avuto la fortuna di poter scegliere i testi che mi erano piaciuti in modo particolare. Lessing ha scritto così tanto, e cose così diverse tra loro, che non tutto necessariamente finisce per piacerti. Oppure non tutto quello che ti piace ti fa venire il desiderio di tradurlo. Io non sono una traduttrice di professione, nel senso che non è con il tradurre che mi guadagno da vivere. Tra l’altro, sono piuttosto lenta, quando traduco, e non ce la farei mai a tenere un ritmo tale da riuscire a mantenermi con questo lavoro.
Hai mai conosciuto l'autrice di persona?
Sì, l’ho incontrata in più occasioni, di carattere ufficiale, e una anche in privato. Le avevo scritto dopo l’uscita de L’erba canta, chiedendole se mi concedeva un’intervista, ma mi rispose tramite l’agente facendomi sapere che non dava interviste e che non amava incontrare critici o lettori. Lei era nei libri che scriveva, mi disse l’agente, e incontrarla non avrebbe potuto aggiungere niente di più. Poi, dopo la traduzione de I gatti, le scrissi di nuovo. Le parlai della mia gatta, e le chiesi se potevo andarla a trovare. Con mia sorpresa mi arrivò una cartolina nella quale aveva scritto il suo numero di telefono e l’invito ad andarla a trovare quando fossi passata da Londra. Non riuscivo a credere ai miei occhi. All’epoca scrivevo su Noi Donne. Partii per Londra dicendo che sarei tornata con un’intervista per il giornale. A Londra la chiamai e mi disse di raggiungerla. Abitava nella stessa casa in cui vive oggi. Andai da lei e passammo un bel pomeriggio a chiacchierare, sedute per terra, in un soggiorno la cui unica mobilia erano dei tappeti e dei gran cuscini sparsi per terra. Io avevo il registratore in borsa, ma non osavo tirarlo fuori. C’era un’atmosfera di amicizia e affettività, in quell’incontro, temevo che la comparsa di quell’oggetto avrebbe cambiato tutto e non volevo che succedesse. Andammo in cucina a farci il tè, poi mi chiese se volevo incontrare il Generale Butchkin che era il nome di uno dei gatti di cui si parlava nella sua autobiografia. Andammo nel giardino sul retro, e lì, su un muretto, tra l’erba lasciata incolta, c’era questo enorme micio bianco e nero, uno dei personaggi del libro che avevo appena tradotto. Lessing gli si avvicinò parlandogli come si fa con i bambini, il gatto rispose miagolando, i due si strofinarono il naso l’uno con l’altra, mentre lei traduceva per me le cose che lui le diceva con i suoi mugolii, traducendo a lui le cose che io gli dicevo. Mi regalò anche delle foto sue con il gatto, che le erano appena arrivate.Tornai a Roma e al posto dell’intervista con Doris Lessing, pubblicai una sorta di intervista al personaggio del suo libro, il gatto di casa. Da allora, ogni volta che le ho scritto, per essere certa che si ricordasse di me, considerata la mole di posta che riceve, le nominavo la mia gatta. Lei ha sempre risposto con cartoline con gatti e mandato saluti alla mia gatta. Poi l’ho incontrata di nuovo in Italia, l’ultima volta nel 2004, al Festivaletteratura di Mantova, che le aveva riservato l’evento di chiusura. Io ho avuto il privilegio di presentarla al pubblico. Un’esperienza davvero emozionante.
Qual è l'elemento ricorrente nei romanzi di Doris Lessing?
Doris Lessing ha scritto talmente tanto - oltre cinquanta romanzi, e poi decine di racconti, saggi, opere teatrali - che è impossibile identificare un solo elemento ricorrente. Tra quelli che mi colpiscono come i più presenti, quasi una cifra distintiva del suo modo di articolare la narrazione, penso all’elemento che Freud avrebbe definito come ‘il perturbante’: l’evento, apparentemente minimo - un pensiero, un rumore, una frase - che interviene in una situazione ‘normale’, a sconvolgerla, cambiandola di segno. Cosicché da quel momento in poi la vita del personaggio che ne viene toccato non sarà mai più la stessa.
Si può dire che la letteratura di Lessing sia una letteratura femminile?
È sicuramente una letteratura nella quale le donne occupano un ruolo centrale, in ogni aspetto della loro esistenza. Ma è anche una letteratura prepotentemente politica, nel senso migliore del termine. Lessing ha una precisa posizione ideologica, che tuttavia è pronta a mettere in discussione. E da sempre si esprime contro le guerre, contro la barbarie dell’uomo sull’uomo, contro la stupidità umana che ha creato colonialismi, razzismi, sessismi.