Autore:
Eduard Limonov / editore: Odradek Edizioni 2004
Pubblicazione:
11 novembre 2004
L'idea di tradurre Eduard Limonov in italiano è nata dall'esigenza di farlo conoscere ai miei amici. Mi sembrava ingiusto che persone che seguono con attenzione gli sviluppi della letteratura russa contemporanea, non potessero conoscerne un pezzo così importante solo perché non possiedono la padronanza del russo. E Limonov è importante, perché copre ormai diversi decenni di storia, dagli ultimi anni sessanta fino ad arrivare ai giorni nostri; importante perché oggi si è ricavato un ruolo d'eccezione, unico nel suo genere e assai significativo per capire la Russia contemporanea; importante perché non accenna a fermarsi, e produrrà altri libri nel prossimo futuro, se la sua attività politica non glielo impedirà. È un classico, ma non ha mai voluto accomodarsi in questo ruolo.
L'assenza pressoché totale delle traduzioni di Limonov mi spingeva ad agire, ma nello stesso tempo poneva diversi problemi tecnici. È un mondo nuovo, da creare da capo. Come organizzarsi? Vogliamo essere leggeri, chiari, vicini all'esperienza quotidiana, conservare l'effetto del monologo vivace di uno spaccone solitario che racconta le sue (dis)avventure? La sua scrittura prettamente autobiografica non è duttile: è piena di riferimenti extratestuali, che un lettore russo coglie al volo, senza nemmeno accorgersi di aver fatto lo sforzo di decifrarlo. Per un lettore italiano, pur preparato e sensibile, resta tutto da spiegare.
I modi per risolvere questo problema sono ben noti: cancellazione/conservazione, nell'ultimo caso nel testo/fuori da esso. Ho scartato fin dall'inizio l'idea di appiattire, uniformare tutto: avrebbe significato tradire il testo e sacrificare un importante canale di comunicazione emotiva. Nel decidere quale via scegliere, ho preso in considerazione due fattori: la tipologia del testo e il tipo di lettore modello, a cui sarà rivolta l'edizione. L'elemento determinante è stato la struttura del testo. Il Diario di un fallito è composto di brevi brani che compongono nell'insieme una sorta di cronaca lirica, dove lirismo è da intendersi nel significato più esteso del termine: comprende anche le meditazioni assai esplicite, a volte pessimistiche, a volte cariche di rabbia esplosiva. In mezzo ad un monologo sconnesso di un emigrato russo a New York, lasciato dalla moglie, incattivito da tutti e tutto, le note a piè di pagina (o anche di chiusura) sarebbero apparse come una forzatura, cancellando l'effetto di fusione immediata fra l'impressione e l'espressione, su cui si basa il fragile tessuto narrativo. Il testo non avrebbe retto nemmeno l'uso delle estensioni esplicative nel testo, passabili in un ampio romanzo, ma assolutamente fuori misura nei brani che a volte non superano una riga. Inoltre, alla mia decisione si aggiungeva la volontà dell'editore di non usare le note.
La seconda considerazione riguardava il lettore implicito del testo tradotto. Secondo Levý, il traduttore ogni volta calibra mentalmente il proprio lettore modello e finisce per propendere per la soluzione che crea meno dissenso presso la maggior parte del pubblico. Il traduttore sceglie sempre il male minore, e si immagina che il futuro lettore anzitutto sarà un curioso - altrimenti perché mai avrebbe preso in mano un libro di un autore sconosciuto, "debuttante" in Italia? Un lettore di tale risma fa la sua scelta perché vuole saperne di più, e non disdegna l'introduzione che lo aiuta a soddisfare il suo desiderio di scoprire cose nuove tanto quanto il testo stesso. Il lettore che ha già un'idea della narrativa russa contemporanea, sopratutto chi la conosce bene, non ne avrà bisogno, e andrà direttamente al testo, per poi tornare all'introduzione se vorrà confrontarsi con l'interpretazione non già dei fatti esterni, ma del testo in quanto opera artistica.
L'introduzione creata con queste premesse diventa parte integrante della traduzione, e permette di compensare il lettore in ciò che non sa o non può sapere.
L'autore, ovviamente, non pensa a queste cose: scrive per sé, al massimo per il proprio ambiente, sogna la fama mondiale ma certo non prende in considerazione le esigenze dei futuri traduttori. Scrivendo il Diario l'autore partiva dal presupposto che la conoscenza fattuale del mondo sottostante al testo ci fosse già presente o possa essere facilmente dedotta dal contesto. Il libro è soggettivo, ma la conoscenza dei fatti che restano dietro le righe è indispensabile per l'adeguata comprensione. Quindi, il mio compito era individuare questa somma del sapere e spiegarla in maniera compatta. La selezione dei punti salienti da spiegare richiedeva un continuo dibattito interno, una verifica delle cose che possono sembrare ovvie e ricerca di equivalenti nel quadro di riferimento del lettore medio.
Un esempio da manuale: il sistema dei nomi russo, ricco tanto quanto l'italiano di vari diminutivi, usa per formarli i suffissi diversi, poco chiari per chi non abbia dimestichezza con le lingue slave. A quelli anglosassoni, per esempio, siamo abituati: collegare un Bill e un William non è difficile, anche se foneticamente hanno pochi elementi in comune. Il collegamento fra Aleksandr e Sasha è meno ovvio. Aggiungiamoci la presenza del patronimico, usato in russo in ogni situazione ufficiale e totalmente assente in italiano, e si può capire da dove nasca il pregiudizio contro i classici russi, giudicati "incomprensibili" per l'abbondanza di personaggi che spuntano da ogni dove. Ma per l'uso russo la moltitudine dei nomi non è atro che l'abitudine quotidiana; Limonov la prende come base di partenza e ci aggiunge la sua personale propensione a mascherarsi dietro vari appellativi. L'autore è narcisista, cambia nomi a seconda dell'umore, e fa lo stesso con gli altri personaggi, soprattutto con la sua ex-moglie, che diventa Elena, Lena, Lenka, Lenocka, a seconda del grado di astio/tenerezza. Ma come far funzionare queste sfumature, se il lettore non può distinguere e quindi interpretare le gradazioni semantiche dei vari suffissi? Addomesticare, italianizzare, coniando Lenuccia e Lenaccia, oppure allontanare, lasciando il tutto così com'è? Ho fatto affidamento sull'intuito del lettore, sull'eloquenza del contesto, lasciando i nomi trascritti e spiegandone il ruolo nella Nota alla traduzione.
Tornando dallo specifico al generale, ho affidato al saggio il compito di presentare i quattro punti cardinali del mondo ricreato nel libro: il personaggio (alias l'autore), la cronistoria della sua vita, i luoghi del mito in cui viaggia la sua fantasia e la sua memoria, e gli altri personaggi dell'ambiente dell'emigrazione.
Il mio compito non era solo quello di attivare nella mente del lettore i frammenti del sapere scolastico o di quello appreso tramite i mass media (negli anni '70 si sentiva ogni tanto parlare dei dissidenti russi), ma di collegarli in un quadro unico, in una griglia di coordinate essenziali, da applicare durante la lettura. Il lettore attento, munito di queste brevi informazioni, potrà riempire gli spazi mancanti, sottintesi a seconda delle proprie nozioni del mondo. La rivoluzione che sognava Limonov non sarà esportabile, ma i miti culturali lo sono.
Chiarisco con un altro esempio. Qualsiasi lettore di media cultura avrà sentito nominare la Crimea, un penisola che si affaccia sul Mar Nero. Ne conserva forse un lontano ricordo legato a qualche battaglia storica, ma, se non ha degli amici russi, faticherà a percepire l'odore del mito che emana questo nome. Per un intellettuale russo la Crimea è la Mecca dei pellegrinaggi spirituali e liberatori, l'isola di storia e arte, dove il buon vino locale si compra a prezzi popolari, le sconfinate spiagge sono selvagge e deserte, le montagne nascondono le tombe dei poeti-simbolisti, le città custodiscono le rovine di castelli genovesi e le chiese armene sconsacrate. Potrebbe essere paragonato all'India degli anni '60 o all'America Latina. È l'ennesima incarnazione di un luogo d'evasione archetipico, che ogni gruppo inventa ex novo ogni decennio. Ho accennato a questa valenza nell'introduzione. Chi è stato accorto nel leggerla, capirà meglio, come mai il protagonista provi tanta gioia a ricordare le montagne, il mare, una semplice corsa in auto, una passeggiata nella nebbia. Tutto ciò succedeva in Crimea, in una terra per lui mitica, che, spero, anche il lettore italiano potrà aprezzare, facendo un altro passo verso la cultura russa.
Ogni coscienza culturale ha un proprio Pantheon, un numero di figure con un ruolo definito. In ogni paese e in ogni sfera culturale (dalla musica pop al mondo accademico) troveremo gli stessi personaggi: il padre fondatore, il romantico, il fragile, il maledetto, quello che tutti conoscono ma di cui nessuno ricorda il nome, quello che ha pubblicato un libro solo e poi è sparito, quello che si è venduto e quello che ha l'autorità morale su tutti gli altri, anche se non si sa su cosa si fondi. La perpetuazione di questi tipi è legata all'intimo della psiche individuale, che proietta il mondo della famiglia e gli archetipi primordiali che portiamo dentro sulla scala ampliata del mondo esterno. Le variazioni nazionali ci sono, ma non cambiano la sostanza. Nel sistema della letteratura russa contemporanea Limonov ricopre più ruoli: è insieme il maledetto, l'esibizionista, il giullare, uno che sfrutta la congiuntura favorevole per far parlare di sé. A differenza di molti altri, però, continua ad insistere con le sue idee anche quando il vento cambia, e non ha paura di beccarsi delle batoste. Ne sono una prova gli anni scontati in prigione di recente. Ma non è questo il punto che volevo sottolineare. L'esistenza di questi Pantheon agevola la creazione dei ponti fra e culture, e creandoli possiamo capire meglio chi siamo, in che cosa siamo speciali e diversi.
In che cosa lo scrittore maledetto nostrano, eletto da ciascuno a seconda dei gusti personali, è diverso da quello russo? In che cosa il luogo d'evasione da noi prescelto è diverso dalla penisola nel Mar Nero, cara ai russi? Oltre ai miti, il libro ci permette di confrontarsi con le reazioni quotidiane. Che cosa faccio, se in una giornata piovosa mi rendo conto con chiarezza crudele quanto sia solo in questa città? Come Limonov passeggio, o resto dentro a fantasticare su un passato perduto e un futuro improbabile? Come reagisco ad una vecchia foto, ad un corteo funebre, ad un sorriso civettuolo di una signora cinquantenne, ai vecchi che si scaldano al sole, alle colorate riviste porno nell'edicola, alla pioggia, alla fame, all'invidia, all'umiliazione? Sono del tutto diverso da lui, o mi ci ritrovo, scoprendo l'improbabile fratellanza con una persona che nulla nasconde ai nostri occhi, né di bello, né di brutto, raccontando la sua esperienza di solitario spaesato, offeso e umiliato ma non arreso.
Infatti, per quanto può sembrare esotica, la sua esperienza non è affatto estranea anche agli italiani della stessa generazione. Se non altro, l'azione del libro si svolge principalmente a New York, città-mito che non necessita di commenti e presentazioni. Si sa tutto di New York, grazie anche a tanti libri gialli lì ambientati. Solo che con Limonov la città viene vista da un'angolatura diversa. Nei brani fantastici la inonda di acqua e di rottami, la sconvolge, la invade, l'annienta, la fa diventare un villaggio post-atomico, dove si passa con una barca da una riva di Broadway all'altra. Nei brani che parlano delle esperienze reali Limonov conquista la città camminando a piedi e annotando quel che sfugge di solito all'occhio abbagliato del turista o a quello assuefatto di un newyorchese DOC. Lo scrittore annota gli animaletti che scorrazzano fra i cespugli, le lettere buttate in discarica, le famiglie messicane che si rilassano a Central Park. La "dolce vita" dei ricchi, dei ristoranti e dei teatri la vede riflessa nei rotocalchi, la odora quando una signora di alta società gli passa accanto, la tocca quando si aprono di scatto le porte di un ristorante e lo urta con una compagnia dei ubriachi.
L'eroe del Diario apprezza la Quinta strada non perché sia un luogo di lusso, ma perché lì conosce un comodo portone non sorvegliato, dove fare pipì nel caso di bisogno. Questa geografia alternativa del testo di partenza richiede una certa de-mitologizzazione. Così ho insistito con l'editore sul non rendere Downtown con il "centro città", ma lasciarlo così com'è. In mia difesa potevo citare non solo l'esperienza empirica della città che non ha nessun centro e comunque nessun quartiere che assomigli al centro storico di una città italiana, ma anche Umberto Eco che ne parla nel Dire quasi la stessa cosa. Downtown è letteralmente la "città bassa", ma non si riferisce ad un dislivello tettonico, come a Bergamo o a Praga, quindi non può essere tradotto alla lettera.
È importante spiegare lo spiegabile, anche perché molte informazioni rimangono al di fuori del testo tradotto: quelle non necessarie e quelle impossibili da narrare. Entrambe sono legate alle particolarità stilistiche di Limonov. Il suo mondo è dettagliato, specifico, eppure surreale. Questo genere di realismo "ottico" lo avvicina a Gogol', un altro scrittore che ricreava la Russia su carta abitando altrove. Non è un caso se Limonov, di solito molto scettico nei confronti dei classici russi, inserisca Gogol' in un quadretto bucolico, ricordando le bellezze dell'estate ucraina. Certo, la portata di questi due scrittori è incommensurabile, ma è indubbio che Limonov abbia imparato la lezione di Gogol'. Ama infarcire il testo con riferimenti a persone reali e inventate, ciascuna dotata di un nome proprio, vero o falso. I personaggi della vita mondana e politica vanno di pari passo con i suoi amici d'infanzia e d'esilio. Nell'introduzione i personaggi russi sono stati elencati e presentati brevemente; gli altri sono riconoscibili senza commenti, oppure indifferenti per la comprensione del testo. Confesso di non sapere nemmeno io, se Carlos Acun o la contessa Eva Gonzales siano un'emanazione della sua fantasia o gli eroi dimenticati di cronaca di quegli anni. Non è necessario saperlo, non entra nelle intenzioni dell'autore: sono solo delle figurine nel suo gioco di ombre.
Ci restano gli elementi del significato impossibili da rendere, che non appartengono all'ambito linguistico ma a quello sociale. Nel caso di Limonov è di primaria importanza la violenza dell'impatto del lessico basso, da lui abbondantemente usato. Non per mancanza di parole forti in italiano, bensì per la differenza culturale nel percepire le parolacce. È difficile immaginare quanto fosse forte per lettore russo l'effetto di una parola sconcia, scritta su un foglio bianco. Quel che in Italia suscita un'allegra risata, farebbe arrossire un russo colto. Non è che i russi siano più castigati degli italiani, no, ma il turpiloquio russo fa poca differenza fra l'espressivo e l'offensivo, ed è molto corporeo ed articolato. Nel parlato della intelligencija non ne era ammesso l'uso.
Limonov, invece, è cresciuto in una borgata operaia. Per lui il lessico sconcio fa parte del vocabolario di tutti i giorni, tanto quanto le brutture, le violenze, la sporcizia sono parte della realtà. Lui ne parla; usa senza tanti giri di parole le espressioni più immediate per parlarne. È vaccinato contro la visione frammentaria, propria per i russi colti di un certo tipo, abituati a filtrare la propria percezione del mondo secondo la dicotomia estetica di alto/basso. È raro che in un opera letteraria un "ragazzo di vita" ci parli in prima persona, e non tramite un rappresentante del mondo borghese (come succede nei romanzi romani di Pasolini). Nella mia traduzione ho cercato di non togliere o mitigare il lessico scurrile, ma l'impatto che provoca è inevitabilmente più morbido.
Paradossalmente, un altro aspetto del Diario che ho scelto di tralasciare di esplicitare è il lato colto di Limonov. Egli si è sempre atteggiato ad essere un grezzo, semplice, lineare. Mentre lavoravo sul testo, ho scoperto con sorpresa le tante citazioni letterarie che il libro nasconde. Peccato che la maggior parte di esse si riferisse alla letteratura russa o a letterature meno note, come certa poesia francese dell'Ottocento o i libri di genere diaristico del Giappone medioevale.
La traduzione è un ponte. Proietta le certezze di un mondo su un versante diverso. Chi s'impegna per costruirlo, chi si prende questo rischio, presuppone l'esistenza di qualcuno che vorrà percorrerlo. Per rendere questo ponte fruibile bisogna ricordarsi ciò che fa la differenza fra un ponte e una strada normale: il suo essere strappato dal suolo, l'essere sospeso in aria.
Ogni libro nasce e vive in un certo ambito culturale, che ne determina le peculiarità: una strada di montagna sarà ben diversa da una di pianura. La traduzione-ponte è tanto più affidabile, quando più fedelmente riesce a ricreare, a convogliare a proprio sostegno le informazioni extratestuali che avvolgono implicitamente l'originale. Nello stesso tempo, se un ponte sospeso è carico di elementi aggiuntivi, il passaggio è ostacolato e l'equilibrio compromesso. Eppure bisogna impegnarsi a raggiungerlo.