Autore:
Jurij Andruchovyè / editore: Besa Editrice 2004
Pubblicazione:
7 ottobre 2004
Può essere utile per comprendere il lavoro di un traduttore da una delle lingue più "esotiche", una delle meno note e più trascurate, come l'ucraino, ripercorrere il faticoso e tortuoso cammino che ha portato a quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato un piccolo evento nel nostro panorama letterario: la pubblicazione del primo romanzo contemporaneo ucraino. A scanso di equivoci, diciamo subito che per tutte le lingue c'è stata una "prima volta" (tutte le lingue hanno dovuto percorrere un faticoso cammino prima di affermarsi). Dico questo perché capita spesso, quando parlo di una lingua e di una letteratura così "esotica", che il mio serissimo discorso venga scambiato per una barzelletta (nessun rimprovero, per carità, il lettore ha sempre ragione!). Tutto è cominciato quattro o cinque anni fa, quando ho trovato in Polonia una traduzione del romanzo in questione. Cominciando a leggerlo, mi è subito tornata alla mente la mia Mosca, quella degli ultimi e deboli respiri del Gigante Sovietico, il clima di incertezza, le leggende metropolitane che circolavano incontrollate, una insperata libertà di parola, che generava mille impetuosi e disordinati torrenti di richieste, minacce, annunci, promesse, proclami, preghiere, proteste. In questo sfondo si muove il protagonista del romanzo: un poeta ucraino (specifichiamo: dell'Ucraina occidentale), che si trova in un ostello per aspiranti scrittori real-socialisti, culla dell'intellighenzia sovietica, concepito per forgiare i suoi cantori. Otto von F., implicato in curiose disavventure, il quale assiste quasi senza volerlo al progressivo innalzamento del tasso alcolico nel suo organismo. A questa progressiva salita, corrisponde un’altrettanto progressiva e opposta discesa nelle viscere di una città-simbolo, di una città-personaggio. L'estraneità di questo personaggio, il suo ironico distacco da questo sfondo tragico e comico allo stesso tempo, ma che non promette niente di buono, il suo vagabondare per questa città stordita, mi ha subito ricordato i miei vagabondaggi e i miei incontri nella metropoli russo-sovietica (nella capitale dell'Impero vi sono le rappresentanze di tutti i popoli soggetti) proprio in quegli stessi anni. Mi resi subito conto che Andruchovyc aveva descritto in maniera veramente mirabile gli umori, gli odori, i fatti e le leggende di un luogo in un momento storico veramente particolare: gli attimi che precedono quella scossa di terremoto che provocherà il crollo. Solo che allora, in Italia, ero il solo a saperlo. Con il mio amico e sodale, titolare insieme al sottoscritto di uno dei più riusciti "tandem" translatori (parlo del co-traduttore Grzegorz Kowalski), cominciammo a tradurre le prime pagine, che abbiamo inviato a una decina di editori italiani, cominciando dai maggiori, i quali, naturalmente, secondo un mal costume tutto italiano, non ci hanno neanche degnato di una risposta negativa. Ma ciò non ci sorprese affatto. In effetti la vera sorpresa è stato scoprire che vi era un piccolo editore salentino fosse interessato a pubblicare il romanzo in questione. Ma prima di giungere a ciò, la strada è stata lunga.
Nel 2000 avevo mandato all'autore il file con la mia traduzione. Lui mi ha risposto in maniera molto gentile, ringraziandomi per la premura. In una sua e-mail successiva mi dice che il suo volo di ritorno dagli Stati Uniti sarebbe passato per Roma, dove avrebbe preso un altro volo per Vienna. Gli risposi subito che avrei cercato in ogni modo di incontrarlo all'aeroporto. Quella mattina l'aereo era atterrato con un paio di ore di ritardo. Un anno prima del fatidico 11 settembre, era ancora possibile convincere un poliziotto a farti entrare nell'area internazionale senza biglietto. Così attesi Jurij nel passaggio tra l'area internazionale e l'area Shengen. Lo riconobbi da qualche foto che avevo trovato su internet. Mi sembrò una persona molto cordiale, aperto, disponibile, insomma c'è stata da subito una certa simpatia. Così mentre aspettavamo una risposta da parte degli editori che non venne mai, abbiamo avuto modo di tradurre il suo poema India, che piacque al direttore della rivista "Pagine" Enzo Anania, il quale lo volle pubblicare quasi subito, nel numero 32 della rivista che uscì tra agosto e settembre. Nel frattempo ci tenevamo in contatto con Jurij via e-mail: trovandosi già a Monaco di Baviera con un visto Shengen, era possibile organizzare una puntata a Roma e la fresca pubblicazione del suo poema sarebbe stato un ottimo pretesto per organizzare qualche lettura. Così a novembre di quell'anno avevo cominciato a organizzare due incontri con l'autore, uno all'Università di Roma "La Sapienza" (dove mi sono laureato e dove ho continuato a studiare con il dottorato in Slavistica) e il secondo alla libreria Odradek. Nel frattempo ho intensificato i contatti con gli editori, bussando a tutti quelli che erano alla mia portata. Da parte della Voland, nella persona di Daniela Di Sora, ci fu un tiepido interesse. Talmente tiepido da raffreddarsi quasi subito. Tuttavia almeno ero stato ritenuto degno di un rifiuto (nota bene: il rischio si sarebbe limitato alla carta, perché la traduzione sarebbe stata in qualche modo finanziata) e per questo sarò eternamente grato alla summenzionata persona! Le letture a Roma erano andate bene. Jurij nelle occasioni pubbliche si è rivelato un personaggio carismatico, capace di tenere saldamente nelle sue mani le redini di un uditorio che non capiva neanche una parola di quello che diceva! Dopo qualche mese si fa vivo l'ardito editore salentino con il quale avevo già pubblicato una raccolta di Fiabe ucraine il quale mostra un certo interesse nei confronti della mia proposta editoriale, che si è concretizzata nel corso del 2002 (non entro nel dettaglio). Così verso l'autunno di quell'anno cominciamo a lavorare intensivamente alla traduzione vera e propria. Le nostre sessioni di traduzione sono intensive e lunghe e vanno, talvolta, dalle 3 alle 3. Lavoriamo con il testo ucraino e la traduzione polacca, che appare nel complesso piuttosto ben fatta (con qualche svarione e qualche distrazione alla quale si rimedia con un serrato controllo con l'originale). Tra noi e l'autore c'è una certa "simpatia": la sua ironia amara, quel ritmo serrato delle scene, quel modo di descrivere il degrado urbano moscovita ci sono molto vicini. Per questo il lavoro scorre con una certa piacevolezza. Qualche ostacolo ce lo pongono alcune espressioni gergali. Decidiamo di ricorrere alle note il meno possibile, solo quando è strettamente necessario (tra l'altro le note creano un sacco di problemi anche in bozza perché il correttore spesso sbaglia, non essendo a conoscenza del dato). Qualche volta lasciamo qualche espressione colorita in lingua, quando il contesto permette di decifrarlo senza grossi problemi (è il caso dell'espressione buchlò, che sta per una qualsiasi sostanza alcolica). Per il resto tutto scorre, almeno nella prima parte, ovvero quella dal tono più realistico, nella quale ci sono molti riferimenti concreti a fatti e posti che conoscevo bene. Ma il romanzo è ancora lungo, così come la giornata del protagonista e la data di consegna della traduzione, fissata per la fine dell'anno, si avvicina a passi da gigante. Il viaggio del nostro eroe continua, così come la sua discesa nel girone dell'ebbrezza alcolica, cominciata in una squallida birreria all'aperto insieme all'allegra brigata degli aspiranti scrittori real-socialisti (l'alcol rappresenta il mezzo, un medium, un veicolo, diremo noi, per compiere questa faticosa discesa). I confini e i contorni del mondo che lo circondano si fanno quindi sempre più labili, ambigui. Siamo costretti a entrare, insieme al protagonista del romanzo, in una sorta di delirio alcolico. Ormai la resa dei conti è vicina. Il tasso alcolico ha raggiunto il suo massimo e così anche il viaggio del nostro eroe sta raggiungendo il fondo, il punto di non ritorno nel quale l'incubo è più reale del vero. Attraverso un immaginario passaggio segreto collocato, in modo non casuale, sotto il grande magazzino di giocattoli "Il mondo del bambino", (che peraltro, esiste realmente e si trova di fianco alla famigerata "Lubianka" - per gli smemorati, sede centrale dei Servizi Segreti, prima KGB ora FSB, nonché ufficio per parecchi anni dell'attuale presidente della Russia, pregasi notare le coincidenze!), si aprono le porte dell'ade moscovita: un magmatico sottosuolo nel quale prendono vita congiure, piani e progetti più o meno immaginari per ristabilire, sotto una nuova forma, i fasti dell'Impero. Compaiono le maschere dei principali personaggi della storia russa: da Ivan il Terribile a Caterina Seconda, da Lenin al generalissimo Suvorov. Anche noi traduttori ci troviamo ormai invischiati in questo strano mondo, in questo delirio ambiguo e allucinato e una strana febbre ormai ha minato il mio corpo stanco per le nottate passate davanti al computer, con la crescente angoscia per l'avvicinarsi della scadenza e uno strano clima che ci circonda, nel quale i fantasmi e le ombre nate dalla mente dello scrittore sembrano prendere corpo e anima intorno a noi. Finalmente, provati ma contenti, nel fondo di una notte, arriva il punto finale. La "Piccola apocalisse" (parafrasando un romanzo dello scrittore polacco Tadeusz Konwicki al quale la Moscoviade deve molto) di Otto si conclude in modo paradossale: da una stazione di Mosca, che sta per essere inghiottita da un diluvio, si allontana un treno che si dirige verso l'Ucraina. Otto, con una pallottola nel cranio, riesce a salire e, insieme ad altri dannati, lascerà per sempre una città perduta. La nostra, molto più modestamente, con una settimana di sonno per recuperare le forze.