Quando sei innamorato hai solo pensieri d’amore, quando sei in guerra hai solo pensieri di morte. (Dušan Šarotar, 7 marzo 2022).
La voce narrante, forse alter ego dell’autore, cerca la pace e l’ispirazione per scrivere in un lento viaggio lungo la costa irlandese battuta da venti impetuosi, martellata da piogge violente, spesso soffocata in una nebbia da cui emergono fuochi fatui, visioni e miraggi; dall’Irlanda passa al Belgio e, via Lubiana, a Sarajevo. Come spesso accade, il viaggio è metafora di scoperta di sé, dei propri paesaggi spirituali.
“Le prime frasi di Panorama le ho scritte su una spiaggia solitaria, in Irlanda, era l’inizio di un viaggio che non sapevo dove e quando sarebbe finito”, così l’autore in un’intervista. “Ero partito per una pausa di studio e di lavoro e anche per cercare un posto tranquillo per afferrare il bandolo dell’ispirazione creativa (…) e poi è andata che invece di cercare io le storie da narrare, sono le storie che hanno trovato me, e con le storie i loro portatori”.
Salgono in scena – veri e propri narratori, ognuno dal proprio diverso esilio –, l’autista albanese e guida occasionale Gjini che dà ricetto alla vicenda propria, a quella di Jane, misteriosa americana di origine irlandese, nodo di continuità tra Irlanda, Belgio, Balcani e Oltreoceano e a quella delle suore benedettine fuggite da Ypres durante la Prima guerra mondiale e rifugiate in Irlanda: ove si incastonano la storia del Castello ovvero Abbazia di Keylemore con la gemma di un amore che supera la morte, e quella dei monaci che mille anni prima si erano allontanati dalla disintegrazione dell’Impero, anch’essi cercando pace lontano dalle fiamme e dalle spade:
«così mille anni fa sono arrivati qui, nella pioggia e nella nebbia alta, i monaci, in nome della fede, della speranza e dell’amore, così dicevano, e nelle loro bisacce con i Santi Vangeli portavano anche tutte le conoscenze e tutti i grandi segreti della Grecia e di Roma, in tal modo salvandoli dal fuoco, dalla spada e dall’oblio. Come vedi, ha detto Gjini, questi uomini ferventi, dediti alla preghiera e all’apprendimento, hanno lasciato a questo popolo perduto, oltre ai preziosi libri che avevano tradotto da fonti originali antiche e dall’arabo, anche la meravigliosa architettura monastica e paleocristiana, in particolare e non da ultimo, ha sottolineato con un sorrisetto, anche la ricetta per una bevanda miracolosa, la birra, che i poveri locali, nella cui testa ribolle molto e molto velocemente, hanno adottato volentieri e subito. Ciò accadeva forse già verso la fine del vi, inizio vii secolo, questi uomini ispirati si sono messi in cammino oltre il continente devastato per cercare uno spazio lontano dalle spade, lontano dalle croci, dove avrebbero potuto scrivere in pace, silenzio e concentrazione; quindi, di sicuro subito dopo che l’antica Roma si è schiantata nella polvere» (Panorama, pag. 43).
Le storie si intrecciano e si sovrappongono, Spomenka, la professoressa di letteratura immigrata dalla ex Jugoslavia che trova rifugio ad Anversa e un impiego come docente presso l’Università di Gent, ospita nel nome (la radice del verbo “ricordare”, “spomniti”) il proprio compito di custode della memoria collettiva “confiscata” con la dissoluzione del Paese e sostituita con la costruzione delle memorie nazionali; la definizione è di Dubravka Ugrešić; nella prof. Spomenka sono riconoscibili alcuni tratti della protagonista di Ministarstvo boli (Il ministero del dolore) della stessa scrittrice – devo l’agnitio alla prof Marija Mitrović che lo ha annotato nel suo bel saggio critico sulla versione italiana di Panorama (L’Indice dei libri del mese, giugno 2021). Spomenka e la figlia, allo stremo, vorrebbero lasciare Sarajevo, le aiuta e organizza la loro partenza un falegname ebreo già loro vicino di casa e custode delle chiavi lasciate dagli ebrei sefarditi che – cacciati da Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona nel 1492– si erano rifugiati a Sarajevo (l’Impero ottomano ben tollerava le minoranze religiose, soprattutto se in grado di pagare ingenti tributi).
Infine, un poeta e filosofo di Sarajevo, Senadin, che accompagna lo scrittore a Travnik e ancora Ita, professoressa di estetica all’Università di Mostar e moglie di Senadin, che racconta delle sue due evasioni da Sarajevo assediata, per riprendere fiato, e Ahmed, l’amico di Sarajevo, che sta cercando di reimparare la propria lingua materna:
«ho resistito qui per tutto il tempo che ho potuto, me ne sono andato da Sarajevo quando mi sono mancate le parole, ha detto, ora sto reimparando la mia lingua materna, vorrei che qui ci si capisse di nuovo, ha detto, un giorno vorrei scriverci una poesia, ha detto, mentre procedevamo lentamente verso la città; studio la mia lingua materna diligentemente e già da un bel po’, sono passati quindici anni, ha detto Ahmed mentre andavamo verso Skenderija, penso che mi sia riuscito di scrivere quella poesia, ma mia madre continua a non capirla, ha detto, non mi capirà mai, ha detto Ahmed» (Panorama, pag. 224).
Un quadro intessuto di molte voci – i legami tra le quali non sono forse immediatamente evidenti sebbene il loro incontro non sia casuale – in un flusso di pensieri in libera associazione, con continui flashback e flashforward e pause meditative, in cui tempi, eventi e luoghi confluiscono e si avviluppano.
Come nel capolavoro di W.G. Sebald, Austerlitz, dichiarata ispirazione di Šarotar e al quale rende ammirato omaggio, lo spazio si fa tempo e il tempo trova una dimensione spaziale nell’intreccio tra visuale e verbale realizzato tramite le immagini fotografiche (rigorosamente in bianco e nero e scattate dall’autore) che costituiscono parte integrante del tessuto narrativo, al pari della sua strutturazione su diversi piani (racconti che si inseriscono e nascono da racconti che celano in sé altri racconti).
“Ho passato quattro mesi alla ricerca dei luoghi e delle città di cui mi avevano parlato i profughi e gli espatriati incontrati nel mio viaggio”, spiega l’autore a un intervistatore. “Mi trovavo nell’appartamento in via Josip Vančas a Sarajevo quando ho finalmente aperto la busta delle fotocopie di “Lettera dal 1920” di Ivo Andrić, me le aveva date un amico prima della mia partenza da Lubiana…”.
Le tappe del viaggio sembrano identificarsi con le stazioni di una odissea e via crucis nel segno della Bibbia e Danilo Kiš, Sebald e Andrić, tra paesaggi dell’estraneità e gli oscuri recessi mentali di chi narra attraverso i temi della non appartenenza e della solitudine in una riflessione sulla storia antica e contemporanea delle partenze e degli arrivi su suolo europeo.
Tra immagini e parola, lo scrittore, poeta e ispirato fotografo Šarotar conduce il lettore in un periplo pensoso e carico di atmosfera attraverso il vecchio continente, scolpisce l’esilio nelle sue varianti – nazionale, linguistica, culturale – in una prosa lirica, sfaccettata e poliedrica come le vicende e i destini di personaggi sfollati, banditi in una terra straniera, in una cultura diversa e spesso ostile. Un panorama di esistenze smarrite e dolenti in cui ci fa da guida un mai nominato scrittore sloveno armato di cellulare e macchina fotografica, alter ego di un poeta introspettivo arenato sulle rive dei suoi paesaggi intimi.
L’opera di Šarotar – dal romanzo di debutto nel 1999 Otok mrtvih ali Potapljanje na dah (L’isola dei morti o Immersione libera), all’ultimissimo e nominato per il Premio Cankar 2022, Zvezdna karta (Mappa stellare) è un vasto spazio di percorsi coerenti in cui ricorrono elementi stilistici e strutturali, volti voci atmosfere e lessico che da un’opera all’altra vengono rimodulati e ripensati, e si richiamano e costantemente ribadiscono l’assunto di base della poetica dell’autore: la poesia è un dialogo con i morti.
“Non si può scrivere poesia con cinismo. Torno e ritorno ai miei ricordi, dico che non smetto mai di ricordare, e così scrivo contemporaneamente un elogio dell'essere e una lamentazione funebre. I miei libri sono cordoglio in forma poetica. La poesia è un dialogo con i morti.”
La poesia è un dialogo con i morti e la scrittura è intessuta di dolore e inguaribile malinconia, dolore del ritorno a una patria perduta – un nostos dichiaratamente impossibile a una patria tanto più perduta e inattingibile per coloro che fuggevolmente la visitano e non la riconoscono. Né si riconoscono in quella di elezione, estranea e sfuggente: così l’Albania e l’Irlanda per Gjini, Sarajevo e il Belgio per Spomenka, mentre per Caroline un luogo o un paesaggio che equivalga a una casa non c’è, Caroline cerca e inventa gli spazi della sua lingua e quando il legame tra lingua e spazio viene reciso, per lei la scrittura non sarà più praticabile.
Sull’onda della traduzione di Panorama, ho letto i testi precedenti di Šarotar; il suo opus è un tutto, si è detto poco sopra, tono, lessico e tematiche si inseguono e si richiamano, talvolta un testo ne cita un altro, anche in Panorama durante una serata letteraria alla Maison internationale des literatures di Bruxelles lo scrittore/voce narrante legge un passo da Ostani z mano, duša moja Resta con me anima mia (2011), due ragazzini ebrei di Lendava, nell’Oltremura sloveno, che si nascondono a Sòbota, invano sperando di sfuggire alle razzie naziste.
“Dusan Šarotar è poeta e scrittore di un opus di interiorità, sottile e schiva”. In Ni morje ni zemlja (2012), Né mare né terra, ancora una volta ribadisce di scrivere sempre lo stesso libro:
“Poiché la letteratura non è progresso e crescita, ma piuttosto approfondimento e immersione. Che tragga la sua ispirazione dalla pianura pannonica o dal mare, è interiorizzazione dello sguardo”.
Anche Mappa stellare (2022) mi ha confermato la sensazione di trovarmi in luogo conosciuto, illuminato adesso sotto angolazioni diverse che me ne hanno scoperto aspetti nuovi e caratteristiche insospettate.
A cosa è dovuta l’unitarietà di questa scrittura, il tono che riconosciamo dall’uno all’altro libro e che pervade le pagine e lo stesso lettore? Alla malinconia. Ecco il perché di quel capitolo di Mappa stellare che – dalla sua isola alla mia – Dušan mi ha inviato in anteprima la scorsa estate: un capitolo dal titolo “Melanholija”. Tanto che lo avevo immaginato come il titolo del libro una volta ultimato. È stata una sensazione speciale leggere Mappa stellare: una narrazione che scorre calma e penetrante, immagini di vita familiare di (apparente) tranquillità, ma è costante l’incombere della minaccia, la lettura è come accompagnata dal suono di una campana funebre; ben definisce questa sensazione la voce narrante, Žalna, amica, sorella e madre più che aiuto domestico della famiglia Schwarz:
«Non so, forse a causa del terrore e dell'orrore che abbiamo vissuto, è come se vedessi la morte ovunque, e a volte mi sembra di vedere e sentire sempre l'eco del male ovunque, come se le vittime si fossero insediate nella mia memoria, e cercassero la loro voce. Non posso ignorarle, nemmeno posso dimenticarle, le ascolto, nei miei pensieri mi trattengo con loro da sola per molto tempo, fino a quando il silenzio non ci sommerge», (Mappa Stellare, 82).
Panorama rimane tuttavia un unicum per stile e contenuti; un intreccio complesso carico di allusioni intertestuali, episodi storici, riflessioni filosofiche, tragiche vicende individuali di esiliati, profughi, la condizione umana di deportato, vittima o strumento dei carnefici, ma anche fiabe e poesie ed ecfrasi di opere d’arte e di architettura. Sarà un omaggio a Joyce nella sua terra d’origine, sarà il perpetuo dialogo con W.G. Sebald, sarà come si diceva sopra, l’afflato biblico che lo anima, una eco forse della lirica elevata e veemente del Libro di Giobbe, il testo più poetico dell’antico Testamento e anche il più filosofico, ma in Panorama, a diversità dai romanzi e racconti precedenti, dal punto di vista formale la tecnica narrativa scelta è il flusso di coscienza, la colata di lava del discorso diretto che pervade la pagina, la colma, quasi senza riposo di pause di punteggiatura, un amalgama denso e coinvolgente che sfugge a classificazioni di genere. Tempi ed epoche diversi, luoghi ed avvenimenti confluiscono in un torrente che trasporta chi legge con la musicalità di un ininterrotto e labirintico scorrere, nel tentativo sempre presente di indagare la fonte e l’origine dell’ispirazione poetica.
La lingua di Šarotar è poetica, e la poesia è la funzione più alta del linguaggio:
“Il linguaggio della letteratura è diverso da tutti gli altri linguaggi, da tutti i generi. La scienza serve a trovare il significato delle cose, ma la poesia serve a trovare il significato della vita. Per questo ritorna sempre alle origini del linguaggio, perché a ogni nuova poesia, a ogni nuovo verso, il linguaggio torna a rinascere. Anche se non scrivo poesie, il mio linguaggio è poetico. Scrivo sulla memoria, sull'ispirazione e con il linguaggio dell'amore”.
Così l’autore in uno scambio di corrispondenza. E più volte ha ribadito:
“da smo takšni, kakršen je naš jezik…che noi siamo fatti della stessa sostanza della lingua, che la lingua è la luce che rischiara il nostro mondo interiore, che arriva a toccare le stelle lontane e a far rivivere e conservare la memoria (e la memoria – come la luce – arriva da stelle estinte da tempo)”.
In una prosa come questa di Panorama in cui – da una stazione ferroviaria all’altra, ai pullman agli aerei ai traghetti, alle auto in un ininterrotto muoversi da un Paese all’altro, da un interlocutore/narratore all’altro, da una perdita all’altra – l’autore introduce elementi strutturali e formali rari e innovativi, nel suo speciale rapporto di simbiosi con la lingua, concentra particolare attenzione anche sulla scelta delle parole. Che quasi mai sono termini del quotidiano oppure – se lo sono – vengono usati in accezioni rare. Ogni termine è potenzialmente caleidoscopico, come gli occhi del mare nel passo di Panorama (pag. 76) qui di seguito riportato che contiene “lega”, parola densa e ambigua: posizione di oggetti nello spazio, ma anche stato d’animo o situazione spirituale, è ricorrente nei testi di Šarotar. Altrove invece lo stesso termine passa oltre l’accezione originaria:
(…) in večni popotnik morebiti pomisli, sem rekel Gjiniju, da so vsi ti mnogoteri, vase potopljeni in skriti obrazi morja, njegove kalejdoskopske oči, ki v nas slikajo nenavadne podobe, temne in sinje lege, občutek prostosti, klic daljav, pa tudi konca, zanj nedosegljivi, pogreznjeni v neskončnost, o kateri ne more vedeti ničesar.
(…) e l’eterno viaggiatore forse pensa, ho detto a Gjini, che tutti questi molteplici volti del mare, in esso affondati e celati, i suoi occhi caleidoscopici che dipingono dentro di noi immagini insolite, chiaroscuri marezzati, (temne in sinje lege) siano una sensazione di libertà, un richiamo delle lontananze, ma anche il richiamo della fine.
Nel contesto (le insolite immagini dipinte dai caleidoscopici occhi del mare dentro il pensiero dell’eterno viaggiatore), il termine “lega” si sfuma in situazione spirituale o stato d’animo.
Talvolta le parole vengono scelte e accostate per il loro suono (pare che così facessero Tolstoj e Gogol); nella traduzione si è cercato di adeguare il tono, e si sono introdotte qua e là sfumature arcaicizzanti per compensare almeno in parte quanto individuato nell’originale. E inserti (parsimoniosi) di poeti italiani per compensare le tante citazioni poetiche del testo sloveno (gli echi dell’intertestualità, dai Vangeli alla Bibbia, da Hegel, Heidegger, Nietzsche e Freud a Primo Levi, France Prešeren, Danilo Kiš, W.G. Sebald, Ivo Andrić… per non dire delle descrizioni paesaggistiche ispirate a opere di Gerhard Richter esposte a Londra nella Mostra retrospettiva dedicatagli nel 2012 alla Tate Gallery per il suo ottantesimo compleanno e intitolata Panorama, e ancora Arnold Böcklin e Giorgio De Chirico…).
Il susseguirsi dei paragrafi con una tecnica propria sì del flusso di coscienza, ma ancora più frammentaria di quanto questo richieda, si realizza in una tecnica associativa e visionaria che fa pensare ai surrealisti, all’Hebdomerus di De Chirico e in una struttura simile a un labirinto.
Scelgo tra innumerevoli altri un esempio – centrato sulla insondabile e inesplicabile Jane – di piani narrativi e temporali che si intersecano e che sono stati risolti in traduzione tramite i tempi verbali (passato prossimo e imperfetto per l’ambientazione al presente, alla Stazione ferroviaria: “non l’ho più rivista…ha detto…aspettavamo…le partenze si succedevano…si è arrestato…si è diretto…mi ha salutato”, e il passato remoto per il flashback irlandese “Tornai …non versai…si alzò e disse”):
pag 185: non l’ho più rivista, ha detto Gjini, mentre aspettavamo ognuno il proprio treno, partivano entrambi circa alla stessa ora, alle dieci, avevamo ancora un’ora buona, alle undici la signora Spomenka mi aspettava alla stazione di Anversa. Tornai con il secchio pieno, andavo di fretta e tuttavia non versai molta acqua, ha detto Gjini, già da lontano attraverso la notte avevo visto il bagliore del fuoco.
pag 187: le partenze dei treni si succedevano con rapidità, era rimasto solo un tizzone acceso, ha detto, e si è arrestato, allora Jane si alzò all’improvviso nel buio e disse, non posso fermarmi, devo andare avanti, ha detto Gjini e si è diretto verso la scala mobile, scendendo mi ha salutato con la mano tra la folla in movimento che continuava a viaggiare.
Come in ogni altra epifania di Jane regna l’ambiguità, il lettore è di proposito lasciato nel dubbio su chi abbia pronunciato quella frase (“non posso fermarmi, devo andare avanti”).
Il complesso edificio formale di Panorama è frutto di un piano in cui la lingua ha un ruolo essenziale. La perdita e i cambiamenti della lingua in chi lascia il proprio Paese sono il nodo centrale:
“Più a fondo venivo a conoscere i miei narratori, ognuno dei quali aveva perso la propria patria e si era in qualche modo trapiantato altrove, più sentivo che dietro a ogni elemento salvato dal proprio antico vocabolario si celava una profonda mestizia”.
Non è casuale inoltre quanto dicevamo sopra, che la frammentarietà della trama sia anche maggiore di quanto non richiederebbe la stessa tecnica del flusso di coscienza. Nella manipolazione di piano narrativo e piano temporale e nella frammentazione estrema di una struttura a strati con inserti continui si riflette la frammentarietà delle esistenze di cui si viene a narrare. La forma non è che un sedimento del contenuto, concludiamo noi lettori di Panorama, e ci conforta riconoscerci nell’illuminante definizione di Adorno.