Inizio questa Nota mettendo le mani avanti: per me, una nuova – e che fosse davvero nuova – traduzione del Gatsby è stata proprio «an offer [I couldn’t] refuse», come diceva quello (in Toscana si fa così per le citazioni un po’ scomode). Solo per libri come il Gatsby si accettano certe cifre e a certe condizioni – ma, allo stesso modo, solo per libri come il Gatsby si trova il coraggio di piantare i piedi e chiedere, almeno, che certe cifre siano nette e non lorde. Volgare? Ho in spregio il denaro allo stesso modo in cui Hemingway aveva in spregio la morte, quindi forse un po’ sì, ma non fuori tema: i soldi sono centrali a questo romanzo (soprattutto quando non bastano), o sbaglio?
Comunque: gioia, poi (subito dopo) timori e tremori. Intanto: Mi piaceva, la traduzione di Fernanda Pivano, 1950 – quando non ero nemmeno una scintilla nell’occhio di mio padre? (Quella di Cesare Giardini, 1936, confesso di non conoscerla.) Anzi: potevo porre il problema in questi termini? No. Gatsby è entrato nella mia vita grazie a quel metatesto, quindi ci sono affezionato, punto. Però, insomma, i suoi anni li dimostrava tutti. C’erano quel «calcio» al posto del football, quelle «farmacie» al posto dei drugstore; c’erano quei personaggi che parlavano italiano tutti con lo stesso registro: colti e ignoranti, ubriachi (non tutti reggono l’alcol, nel libro!) e sobri, e però tutti compìti – «e senta qua», e «guardi lì». Sembravano tutti mia zia di Torino. Colpa della Pivano? No. Specchio dei suoi tempi – la sensibilità linguistica e la riflessione metodologica (mi piace assai più di “teorica”, applicandosi a un mestiere e non a una scienza esatta) sull’attività del tradurre erano quelle che erano. Fateci caso: prendete un Faulkner d’annata, diciamo fino ai Sessanta almeno – la sua nobiltà terriera del Sud e, per esempio, i semianalfabeti cajun delle paludi del Delta parlano lo stesso italiano; discutono se sparare o no a un orso predatore e sembrano prendere un caffè in Piazza San Carlo (da giovane andavo spesso a trovare mia zia…). Quindi, insomma, qualcosa da svecchiare c’era. Qualche errore da correggere c’era (errori ne facciamo tutti). Come ispirarsi, però? Come trovare l’umore giusto? Che voce doveva avere il mio nuovo Gatsby? È qui che la faccenda si è fatta seria. Il traduttore è l’aiutante dell’autore, ma è anche l’aiutante del lettore. Deve rispettarli entrambi: il secondo, in molti casi (essere competenti in un’altra lingua è bello e utile, ma non obbligatorio) conoscerà quell’opera attraverso le sue parole. Tradurre non è, se posso dirlo, un mestiere per chi ha problemi di Ego. Il traduttore, lo ha detto Pennac, è lo psicanalista dell’autore? Forse. Di sicuro è lo psicanalista di se stesso. Un lettore (sempre Pennac), se ciò che legge lo fa soffrire, può non leggerlo! Un traduttore, no: deve bere fino in fondo l’amaro calice (Luciano Bianciardi, se la memoria non m’inganna).
Dunque, per dire, se Gatsby parla, come fa, di un fallimento esistenziale (di Jay, di Nick, dell’autore, forse di tutti quanti), e se nel tradurlo ci rammentiamo pure del nostro (in realtà soprattutto professionale, e… per ora!), e se questo ci rattrista, in una parola: pazienza! Bisogna ugualmente costringersi a sentire, per poi smontarla e rimontarla, ogni rotella del meccanismo che all’interno del testo trasmette quel messaggio. Sennò viene male.
Mi rendo conto però che queste, per chi si occupa di traduzione con un minimo di serietà, sono osservazioni banali. Torniamo al Gatsby, dunque.
Un’opera si può definire grande per molti motivi; per esempio quando riesce a non parlare solo all’epoca e dell’epoca nella quale vede la luce, ma anche alle (e delle) epoche successive. Dopo aver vissuto un po’ di più (lo lessi per la prima volta da molto giovane, e non mi ci riconobbi), dopo un paio di riletture e una lunga pausa di riflessione – capita anche con gli amori letterari – mi sono convinto che Gatsby è stato scritto negli anni Venti, e quindi parla anche agli e degli anni Venti, ma avrebbe potuto benissimo vedere la luce, dico, negli anni Ottanta. Perché parla anche di quel decennio, di certi suoi gironi infernali che molti di noi hanno attraversato e che solo adesso, guardandoli da questi anni Zero-Dieci nei quali pare che ci siamo smarriti, se possibile, ancora di più, riusciamo forse a mettere a fuoco. Solo i migliori sanno comprendere e vivere le cose mentre succedono; alla maggioranza di noialtri serve più tempo.
Ecco la risposta, dunque. Ritradurre Gatsby ripensando agli anni Ottanta. Come un rumore di fondo. Un basso continuo, che c’è ma non si sente. Tornare a quelle atmosfere, a quelle superfici scintillanti e a quelle ombre profonde. Rivivere lo spirito del tempo, ma perché da bravo spirito sia presente e tuttavia resti invisibile (sono convinto che esista una specie di metodo Stanislawskij del traduttore, ma spesso bastano un po’ di autosuggestione, i dischi giusti e qualche fotografia). In questo, almeno in questo, posso dire che ho avuto fortuna. È vero, molti di noi hanno una Daisy nel proprio passato. Quella di Tommaso Pincio, ormai lo sappiamo, era Carolina di Monaco; io volavo più basso e la mia divideva con la principessa Grimaldi solo l’iniziale del nome – ma era più bella; più spesso, però, l’accostavo a Lady Brett Ashley di The Sun Also Rises, personaggio di tempra un po’ migliore (il Gatsby è un testo piuttosto misogino, se posso, e questo ancora mi spiace)...
Ma non divaghiamo: a ciascuno la sua Daisy, dunque. Io, però, sono anche stato (a modo mio) il Nick Carraway di un Jay Gatsby – il mio amico fraterno S. P.
Avevamo entrambi una green light che splendeva all’estremità di un molo, e che ci pareva, allora, quasi a portata di mano, o comunque raggiungibile. Le davamo nomi diversi, tuttavia: per me era la letteratura, studiata, tradotta, raccontata in un’aula, forse un giorno anche scritta. Per il mio amico era un mondo fatto di luci, di bellezza per lo più esteriore, di feste e di abiti eleganti. Voleva diventare cittadino di quel mondo, fingeva di essere cittadino di quel mondo, e per entrarvi aveva scelto la fotografia. Io non ho mai capito perché si affannasse tanto, che cosa ci trovasse, cosa ricevesse in cambio di tutta quella fatica, ma gli volevo bene e accettavo, come Nick, di restare sullo sfondo. Alle feste sembravo come quei vietnamiti aggrappati all’esterno della recinzione, in Apocalypse Now, mentre si esibiscono le conigliette di Playboy. Come Nick, al massimo, ero quello che raccontava; una voce (proprio come adesso). S. mi aveva dato anche un nomignolo che non era, però, “vecchio mio” – e nemmeno “vecchia lenza”. Quando viaggiavamo ci registravamo negli alberghi con professioni fasulle, ma legate ai mondi dove un giorno pensavamo che avremmo abitato. Nessuno dei due c’è riuscito: e dire che il mio amico almeno denaro ne aveva! Sono andati avanti i Tom Buchanan, con la loro enorme incuria, e se li incontro per strada resto un po’ nel dubbio se stringergli la mano.
Insomma, nel mio Gatsby c’è anche un po’ di questo; c’è ma non si sente. E se non si sente forse significa che se c’è va bene, che forse è stata una buona idea, che forse ho reso un buon servizio al testo. E non si sente anche perché comunque, oltre a un’idea, dietro a questo libro ci sono mesi e mesi di lavoro. E discussioni. Fossi stato più maldestro e peggio consigliato, per esempio, quello artistic game del quale fa parte il povero McKee (un altro fotografo) poteva anche diventare una fauna d’arte, col termine felicemente coniato dal mai abbastanza rimpianto Pier Vittorio Tondelli (lui sì che gli anni Ottanta seppe capirli mentre accadevano); perché McKee è anche, o poteva essere – trent’anni fa – un membro della fauna d’arte che popolava quel tempo e che piaceva tanto al mio amico S.P. Ugualmente, il viaggio irresistible che riporta Gatsby a Louisville subito dopo la guerra, e lo salda per sempre al suo destino, poteva pure diventare invincibile, come le rese (nel senso di arrendersi) di tanti personaggi di Andrea Pazienza (Michele – un altro fotografo; Pompeo…) che negli stessi anni si arrabattavano contro destini e forze che non potevano nemmeno scalfire. Mi hanno ben consigliato, però, e allora sono rimasti giro dell’arte e irresistibile. Lo scrivo qui, che ci avevo pensato, si giudichi pure liberalmente. Invece, quei drugstore dovevano restare drugstore e non diventare empori, perché siamo nel 2011. Abbiamo messo una nota, però. Quel putter doveva restare putter, e non diventare mazza da golf, perché Jordan Baker è una giocatrice professionista e chiama le cose col loro nome. Abbiamo messo una nota, però.
Una cosa non avrei mai cambiato, tuttavia, a costo di togliere la firma. Lo dico a mio rischio e pericolo: il finale. Io non sono uno che urla alla lesa maestà, né con Fitzgerald né con altri. Il finale del Gatsby però non si tocca. È perfetto così, e chi prende in mano il libro per la prima volta merita di ritrovarlo così. Perché se si parla di fallimento, lì c’è tutto. Forse bisogna conoscerlo, non lo so. Forse bisogna provarlo, il sentimento di chi ogni sera si addormenta sperando di risvegliarsi una persona migliore, di riuscire il giorno dopo a correre più in fretta, ad allungare di più le braccia. Sforzandosi, spesso contro l’evidenza, di crederlo possibile. Poi invece si ritrova sulla solita barchetta, dal verso sbagliato della corrente. Barchetta che non può essere altro che a remi, perché non lo so se il bordeggiare o la bolina sono faticosi (bene o male, la barca va avanti…), ma so quanto lo sia remare controcorrente (bene che vada si resta fermi o quasi, male che vada si viene risospinti verso il passato). Fitzgerald, poi, non solo sapeva quello che diceva, ma sapeva anche scrivere. Non avrebbe scritto against the current. Avrebbe scritto against the wind.
Nota alla nota:
Alla fine credo di aver capito dov’è che sbaglia(va)mo. A fare certe cose aspettandoci di ottenerne qualcosa, e non, semplicemente, per il valore estetico del farle. Gatsby sbaglia a fare tutto quello che fa per riavere Daisy (ammesso che l’abbia mai avuta). Dovrebbe essergli sufficiente smascherare, indirettamente, i Tom Buchanan, i signor Sloane, la polvere sporca che fluttuava nella scia dei suoi sogni. Lui, in fondo, già vale quanto tutto il dannato mucchio messo insieme. Il mio amico S. P. sbagliava a voler diventare cittadino di quel mondo scintillante: poteva ricavare miglior costrutto dal suo talento di fotografo. E anche io sbaglio: dovrei tradurre e studiare solo per il gusto di farlo. Forse non ho sbagliato con la mia Daisy, però. Ben presto smisi di sperare alcunché, e buttai tutto in gesto estetico, e quindi vano: ogni volta che uscivo dai confini comunali di Firenze per sette anni le spedii una cartolina anonima, con solo data e luogo. Tutte quelle cartoline, se esistono ancora, sono un po’ la mia medaglia del piccolo Montenegro.