Un uomo che dorme è la storia di uno studente che la mattina dell’esame, invece di alzarsi, lascia suonare la sveglia e richiude gli occhi. Segue il racconto della sua vita ordinaria, in cui si educa all’indifferenza per tutto, vagando come un sonnambulo per Parigi, turista in casa propria. È un libro che potrebbe anche essere riassunto come il minuzioso verbale di una malattia, non fosse che tutta la sua potenza viene dal senso di dolorosa adesione che progressivamente si insinua in chi legge. Quasi che la tentazione di sganciarsi dal mondo e dai traffici umani, dal “dover essere” e dal “dover fare”, fosse il baratro cui siamo tutti sospesi nell’attivismo di ordinanza delle nostre vite.
Un uomo che dorme è forse il libro più denso che Georges Perec abbia scritto. In forma rapsodica, sono presenti tutti quelli che Perec indicava essere i quattro assi portanti della sua scrittura: l’autobiografico (anche se, qui come altrove, solo per vie oblique e sotterranee), il sociologico, il ludico e il romanzesco (seppure come qualcosa che traspare soltanto tramite la sua negazione).
“Ho avuto un’epoca della mia vita che si era rivolta al vuoto... dopo aver finito Le cose, in cui ho cercato di descrivere la fascinazione per le cose, la pressione che queste esercitano su di noi..., ho scritto un libro su un periodo della mia vita dove, al contrario, ero assolutamente indifferente. Non più la fascinazione, ma il rifiuto delle cose, il rifiuto del mondo.” A queste parole di Perec, va aggiunto che nella descrizione del vagare a vuoto del protagonista per le strade di Parigi è già in atto questa sua sociologia, come tentativo di “descrizione di ciò che non si guarda mai perché si è o si crede di esservi fin troppo abituati”, che chiamerà poi “l’infraordinario”.
Gli altri due assi sono quelli più direttamente connessi alle difficoltà di traduzione. Pur non essendo un libro oulipiano (non ci sono vincoli da rispettare), i neologismi e i non-sense, l’utilizzo giocoso di proverbi e frasi fatte, i cruciverba di un giornale che a un certo punto il protagonista risolve a mente, sono già lì a indicare il gusto di Perec per le possibilità ludiche della lingua. Qui era d’obbligo ricorrere a una traduzione “reinventiva”, che era l’unico modo d’essere fedeli, come spiego nella nota alla fine del libro.
Infine il romanzesco, che qui appare in absentia, cioè tramite la massa di riferimenti ad altri romanzi, con citazioni, pastiches, o semplici allusioni, di cui è infarcito l’intero romanzo. Quasi che la storia dello studente prendesse le mosse dalla negazione di tutte le storie possibili, e fosse come un buco vuoto al centro della miriade degli altrui romanzi di cui si nutre. Il che ha a che fare con un’idea cara a Perec, e cioè che ogni “pieno”, testo o configurazione che sia, è in relazione al vuoto su cui poggia.
Nel finale, quando l’avventura nell’indifferenza dello studente comincia a disegnarsi in una parabola dall’epilogo enigmatico, le citazioni da Kafka, Joyce, e soprattutto Melville si infittiscono, ma col senso ribaltato. Nel tradurre si trattava di tenere conto di tutte queste crittocitazioni, lasciandole si nell’implicito, ma cercando però anche di mantenerne i leggeri salti di registro, i quali fungono da segnale, e ottengono nel contempo un effetto leggermente straniante sul lettore.
David Bellor, traduttore inglese di Perec, racconta che in La vita, istruzioni per l’uso c’è una citazione testuale da Joyce che occupa più di una mezza pagina; all’uscita della traduzione in Inghilterra alcuni critici gli hanno rimproverato proprio quella mezza pagina, accusandolo di non saper scrivere in inglese.
Pur rischiando incidenti di tal sorta, tradurre un autore come Perec è un’esperienza oltremodo rasserenante. È un po’ come fare una passeggiata nella foresta delle parole, bighellonando oziosamente tra un dizionario e l’altro, lasciando svolazzare l’immaginazione sulla scia di mille e una associazioni evocate dalla tale o talaltra parola.