Autore:
Knud Rasmussen
Pubblicazione:
26 novembre 2011
Occuparsi di un libro come Il grande viaggio in slitta di Knud Rasmussen, in un’epoca in cui molta produzione di libri danesi in Italia è concentrata sul thriller, è sicuramente una sfida stimolante per un traduttore. Dopo un passato in cui dalla pubblicazione originale alla traduzione italiana – peraltro spesso di seconda mano, ovvero da lingua terza – trascorrevano anni, a volte decenni, oggi invece è in corso una grande ondata danese che cattura l’assoluta novità del mercato.
Grazie ai thriller è una tendenza del tutto positiva, se non fosse che ogni tanto è bene tornare a una lenta importazione traducendo cose uscite dieci, cinquanta, cento anni fa, perché nel tempo qualcosa è andato inevitabilmente perduto. Classici pochi, oggi, niente che possa avvicinare il lettore italiano alla tradizione di una cultura in apparenza nota, ma di fatto lontana. Knud Rasmussen appartiene a un mondo ancora più lontano, oltre le conoscenze del lettore comune italiano, perché non era solo danese, ma legato all’area geografico-culturale groenlandese, ignota ai più e solo intuita nelle sue implicazioni sociali in un thriller – ancora una volta, servono anche a questo – come Il senso di Smilla per la neve. Nato in Groenlandia da famiglia danese con un po’ di sangue locale, Rasmussen dedicò la vita a esplorare quella terra a scopi scientifici, in condizioni che forse nessun altro occidentale avrebbe potuto affrontare, e Il grande viaggio in slitta è la versione ridotta – per il grande pubblico – della voluminosa relazione della V Spedizione Thule (1921-24) che lo portò dalla Groenlandia all’estrema Alaska, a toccare un numero altissimo di tribù inuit. Dalla relazione scientifica questo volume, da decenni una lettura classica per i danesi, viene elaborato a diventare il racconto di una vera avventura fra i ghiacci e le acque del grande nord americano.
Knud Rasmussen non è uno scrittore, e questo il traduttore – e forse ancora il lettore italiano – lo percepisce nella sua prosa non sempre lineare, spesso frutto, probabilmente, di un faticoso passaggio dalla lingua degli inuit – in cui le idee vengono vissute e formulate – al danese in cui vengono espresse, talvolta in modo inadeguato per le insufficienze del lessico di arrivo, incapace di riprodurre termini anche semplici e quotidiani come le forme del ghiaccio o la tecnica della caccia alla foca. Dal danese all’italiano il passo è più lungo e ha impegnato il traduttore con ricerche sulla terminologia relativa alla caccia – foca o renna – o alla costruzione delle slitte o degli igloo, e con la lettura di testi di antropologia sugli eschimesi scritti negli ultimi decenni, testi che spesso si basano sull’opera di Rasmussen e in vari modi si riferiscono alla sua mitica narrazione.
La prosa non è sempre lineare, ma il libro è sostenuto da un entusiasmo comunicativo senza eguali e il lettore non può non percepire, forse ancora nella lingua italiana, il calore dell’atmosfera serale nell’igloo dove i vecchi narrano leggende antiche, o l’immobile tensione del cacciatore in agguato, e il passaggio dalle esplorazioni basate sull’abilità fisica a quelle basate sulla tecnologia, dall’isolamento delle popolazioni artiche all’estensione del commercio, che avrebbe creato la dipendenza dalle merci e di conseguenza dal contatto con i commercianti. Molte cose sono cambiate da allora, ma Il grande viaggio in slitta rimane una lettura fondamentale per comprendere le popolazioni artiche in un’epoca ormai da tempo scomparsa.