“Dopo di me, il traduttore è sempre la persona che conosce meglio il mio libro. Ci tenevo a incontrarti per ringraziarti.”
Queste, più o meno, sono state le prime parole che Hanif Kureishi mi ha rivolto, quando venne in Italia per la presentazione della sua raccolta di racconti Love in a blue time. Era la prima volta che traducevo questo autore, che avevo amato tanto da lettore. Dopo di allora ho continuato a tradurlo, e, se non vado errato, ormai ho curato l’edizione italiana di dieci dei suoi libri, oltre che la traduzione dei dialoghi del film di Patrice Chereau Intimacy, tratto da uno dei suoi romanzi.
Otto braccia per abbracciarti era l’ottavo di questi libri. Per la prima volta non si trattava di narrativa, ma di una raccolta di saggi di vario argomento, dalla politica, alla musica, alla scrittura. Al momento di affrontare il lavoro ero impensierito, mi ricordo. Ho sempre creduto, e credo ancora, di essere più capace come traduttore di narrativa. Penso sia una questione di passione, come in fondo tutto nella vita. Da lettore, sono più affezionato a romanzi e racconti che alla non fiction. Da scrittore, credo mi piaccia soprattutto raccontare storie. Forse per questo, ricordo la traduzione di questo volume come un viaggio un po’ più lungo e faticoso degli altri. Sette saggi, scritti in un arco di tempo piuttosto vasto. Sette stili da tenere distinti cercando però di mantenere una voce comune. Una quantità di lavoro di ricerca e documentazione per essere sicuro di non scrivere sciocchezze. E soprattutto, la mancanza del conforto del flusso della narrazione, che ti permette, una volta finita una prima stesura, di continuare a rileggere quello che hai fatto, cercando di trovare una specie di musica della lingua. Cercando di perdere quella legnosità, quella fatica nello scorrere delle parole che per me caratterizzano una cattiva traduzione.
Il mio metodo, nelle traduzioni, è semplicemente questo. Cerco di arrivare a una prima stesura abbastanza presto, per poi impiegare il resto del tempo (prima dell’arrivo delle telefonate minatorie dalla casa editrice) per leggere e rileggere più volte il testo, correggendo fino a che non ha perso le sue asperità.
Sì, è un lavoro lungo. E sì, normalmente arriva qualcuno dalla suddetta casa editrice a strapparmi a forza il testo dalle mani.
Un viaggio un po’ più faticoso degli altri, dicevo, questo delle Otto braccia. Ma tutti i viaggi, tutte le traduzioni sono un lavoro di grande impegno e di grande responsabilità. Quando scrivo per me stesso, che si tratti di sceneggiature, di un romanzo, di un racconto, mi sento più libero, libero di sbagliare senza coinvolgere nei miei errori nessun altro che me. Quando traduco, mi sento enormemente più responsabile. È come se qualcuno, di cui non voglio tradire la fiducia, mi avesse dato in prestito un oggetto caro; se dovessi romperlo, non me lo perdonerei. Forse questa sensazione è aggravata dal fatto che in effetti io traduco soltanto due autori, Kureishi, appunto, e Michael Cunningham. Stimo molto entrambi, ed entrambi, conosciuti e frequentati nel corso di questi anni, si sono rivelati persone in maniera diversa a me molto care. Farei di tutto per non deluderli.
C’è un aneddoto legato a questa traduzione che mi piace ricordare, perché dice molto della considerazione - scarsissima - in cui vengono tenuti i traduttori nel nostro paese. All’indomani della pubblicazione, sull’inserto letterario di un quotidiano un recensore mosse dei rilievi alla traduzione, cosa di per sé più che legittima. I critici devono criticare. La particolarità fu però che per muovere quei rilievi il recensore fece riferimento a un testo originale di Kureishi che non esisteva: se lo era inventato di sana pianta, credendo di ravvisare un errore di senso e volendo avvalorarlo con un virgolettato che iniziava con le parole: “il testo originale dice...”. Seguì quindi una mia lettera di protesta (a dire il vero regolarmente pubblicata sul supplemento la settimana successiva) in cui il recensore fu costretto a riconoscere la sua approssimazione e la sua fantasiosa capacità di costruire un testo dal nulla. Ma resta la domanda: con quale leggerezza e quale superficialità viene considerato il nostro lavoro?