Autore:
Jacques Derrida
Pubblicazione:
13 dicembre 2004
Tra le tante questioni che lascia aperte, l'opera di Derrida ha mostrato, con un'evidenza pressoché assoluta, quella per cui si può - o si deve (e bisognerebbe certo soffermarsi su questo imperativo) - tradurre soltanto ciò che è (o appare) intraducibile. Questo paradosso sta al cuore di tutto quanto viene chiamato, con un termine che lo stesso Derrida amava poco, decostruzione. Nella Lettre à un ami japonais, pubblicata in Psyché, Derrida scriveva: "[…] l'impossibile "compito del traduttore" (Benjamin): ecco ciò che significa tra l'altro "decostruzione"". Ma questa impossibilità, questa possibilità impossibile, segna in maniera cruciale l'esperienza di scrittura che per Derrida è sempre totale, è sempre legata al "far accadere", al pensiero, alla vita e dunque è volta verso ciò che ancora non c'è, o verso ciò di cui si ha sentore ma che ancora non si è presentato in questa modalità particolare. E di quanto non c'è o di cui si sente nell'aria una sorta di prossimità non si può prevedere nulla, né progettare alcunché, ma solo aprirsi - con ogni sorta di cautela e di rischio, le due cose non vanno mai disgiunte - all'impossibile che pur viene, che è l'apertura propria dell'esistere.
Tradurre Derrida, dunque, significa fare l'esperienza di una estraneità che si situa a livello del lavoro sempre sul limite a cui la lingua francese viene sottoposta. Non è soltanto questione di virtuosismo linguistico (anche se il talento, in tutti i sensi, di Derrida è indiscutibile e palese), ma soprattutto di una continua forzatura e pressione della lingua che tuttavia riemerge (anche nei punti in cui sembra smarrirsi in una polisignificanza cercata ed insistita) con una freschezza sorprendente. Jean-Marie Pontevia parlava, a proposito della scrittura di Derrida, di "infallibilità" e il termine, per quanto bizzarro possa sembrare, ha una sua pregnanza che tocca un aspetto decisivo, quello dell'estrema tenuta di questa scrittura, il suo tenersi al di là di tutti gli abbandoni e gli eccessi, tanto da dare l'impressione di essere l'ultima scrittura barocca, o un suo improbabile fantasma, dove a stupire è il sapiente gioco delle pieghe che tuttavia, a sprazzi, sembra illuminarsi in un lampo che tutto raccoglie.
Nel caso di Sulla parola, tutto quanto detto sopra è presente per così dire sullo sfondo. Questo libro, infatti, raccoglie una serie di interviste radiofoniche che Derrida ha rilasciato tra il 1997 e il 1999 su France Culture. Si tratta, dunque, di una trascrizione del parlato sul quale Derrida è volutamente intervenuto con pochissimi ritocchi posti fra parentesi quadre. Il tono è dunque colloquiale, disteso, anche se non mancano momenti di intensità e vivacità nei dialoghi con gli interlocutori (Derrida, tra l'altro, era anche uno straordinario conversatore). Si va dai racconti specificamente autobiografici alla trattazione di temi importanti quali l'ospitalità, la menzogna in politica, la giustizia e il perdono fino a questioni più prettamente filosofiche quali la fenomenologia e il marxismo. Qui i problemi sono diversi: innanzitutto si tratta di interventi d'occasione legati a particolari eventi o situazioni, sono dunque delle "istantanee filosofiche" - come recita il sottotitolo - che, non senza qualche apprensione da parte dello stesso Derrida, sono diventate "parola scritta" e dunque hanno assunto una certa persistenza non prevista inizialmente. Sono dunque "scritti" recuperati, in un certo senso; o meglio: un'oralità tramutatasi in scrittura con tutto il rischio che un'operazione di questo tipo comporta (l'intervento orale, ad esempio, è meno "controllato" rispetto a quello scritto e l'esposizione, in un certo senso, è doppia). È poi il tono generale dei discorsi ad assumere una diversa fisionomia passando dall'orale allo scritto: laddove nel parlato il senso di una parola viene sottolineato da una certa enfasi o da un silenzio che precede o che segue, la scrittura rimescola il tutto e riordina secondo un ritmo suo nel quale la semplice trascrizione rischia di arrancare in una piatta e troppo uniforme cadenza. Derrida ha tuttavia deciso di "non barare", come scrive nell'Avvertenza, e di lasciare quindi che queste parole "appena disarmate" si fissassero nello scritto. Il libro presenta dunque alcuni aspetti del pensiero di Derrida (e soprattutto l'incedere rigoroso e singolare del suo farsi) in una modalità inusitata, mediante una trascrizione viva della sua "nuda voce" che certo rende agevole per il lettore una delle filosofia più complesse di questo secolo e mostra soprattutto la "passione del presente" che la animava.
La difficoltà del traduttore, in questo caso, consiste nel sentire lo scritto come un effettivo dialogo, cercando quindi di operare in due dimensioni. Da una parte, infatti, vi è l'evidenza della scrittura, ma dall'altra vi è un rimando continuo all'esperienza puntuale del conversare. A tutto questo si aggiunge il lessico usato da Derrida che, naturalmente, richiama di continuo (tra gli altri) i suoi libri attraverso riprese, riferimenti, richiami, citazioni, echi più o meno espliciti, di cui bisogna naturalmente tener conto.
Insomma, pur lavorando su un Derrida "scoperto" più del solito, bisogna sempre diffidare anche dell'apparente linearità di queste pagine, considerato che l'autore (il quale, in questo caso, ha pur sempre acconsentito a pubblicare queste trascrizioni) è lo stesso che afferma: "[…] ciò che scrivo è legato anima e corpo all'idioma francese e all'idioma meno traducibile; […] scrivere in maniera abbastanza idiomatica da rendere difficile la traduzione è persino una specie di regola che mi do […]".