Tradurre, tradire. Transduco, porto al di là; transdico, dico oltre. La traduzione italiana del saggio di François Laplantine suona: “Identità e métissage - Essere umani al di là dell’appartenenza”. Io, noi e gli altri sono scomparsi, per chiarire, immediatamente, i termini della questione: il pensiero dell’identità da una parte, dall’altra il pensiero meticcio. Fissità e Processo, Immobilità e Trasformazione. La traduzione non è mai esatta, non può esserlo: le parole anche più semplici, o banali, o all’apparenza innocenti, coprono campi semantici sempre “lievemente” sfasati, nel passaggio (trans-) da una lingua all’altra. Datato, ma non troppo, l’esempio di Eco (da Hiemslev) sulla corrispondenza tra francese e italiano: bois non è solo legno, bois è anche bosco, ma bosco è anche foret, e foret non è precisamente foresta. Per me tradurre significa “rendere un significato disponibile”, dare uno strumento in più. È un’operazione al limite, fra il tradimento del significato originale, sempre sfuggente, e il senso che noi attribuiamo a quella parola, nel nostro personalissimo idioletto privato. Tradurre questo testo di Laplantine è stato molto divertente: ho scoperto che non conoscevo poi molto bene il suo pensiero (è stato mio professore di antropologia a Lyon), che c’erano dei punti ben poco chiari, dove i riferimenti si facevano vaghi (qual è il ruolo di Austin e degli enunciati performativi nel pensiero del métissage? non è evidente per me, tuttora), dei passaggi invece che mi erano sfuggiti finchè non ho dovuto trasferire in italiano quel che avevo letto in francese. Per esempio, la teoria della conoscenza (pp. 84-88) che riassume in poche battute la disputa sugli universali medievale (pur non citandola mai direttamente) per arrivare attraverso Wittgenstein a una sorta di nominalismo estremo, si potrebbe dire: il mondo esiste attraverso il corpo e il linguaggio. Dice Laplantine (o sono io che glielo faccio dire in italiano?): “Il fatto che non si possa percepire il mondo al di fuori dell’atto dello sguardo, né descrivere ciò che si percepisce al di fuori della parola e della scrittura, implica l’impossibilità di uscire tanto dal corpo quanto dal linguaggio. L’idea di un’autonomia del referente (di ciò che è descritto, dell’oggetto, del significato) è un’illusione, mentre la sua problematizzazione (Jakobson, Wittgenstein) non corrisponde affatto all’abbandono del senso.” Il discorso vira poi sul campo etnografico: il “terreno” dell’etnografia è la relazione, corporea e linguistica, relazionale, tra studioso e gruppo sociale e culturale: è una compartecipazione al processo di creazione di senso. L’antropologia, a partire dalla ricerca etnografica, è dunque una traduzione, una continua mediazione di significati culturali. Laplantine arriva a sostenere che l’antropologia e le scienze umane in genere dovrebbero imitare la letteratura, e le scienze “esatte”, e farsi “traduzione” a tutto campo, abbandonando ogni pretesa scientista e cercando di cogliere il “tra-i due”, l’oscillazione e lo scivolamento dei rapporti umani, delle relazioni umane, per poter finalmente diventare ciò che afferma di essere: un “discorso sull’uomo / dell’uomo”. Questo è l’aspetto che più mi ha colpito nella traduzione di questo saggio, per le infinite possibilità di analogia che apre: l’idea di com-partecipazione, dell’etnografo e del gruppo umano che descrive, è immediatamente anche com-partecipazione dell’autore, del traduttore, del lettore nella creazione di senso della letteratura, delle parole stesse. Ma le applicazioni sono molteplici: dall’osservazione partecipante dell’antropologia alle scienze esatte: la fisica nucleare si fonda tra l’altro sull’idea che lo scienziato, osservando, “partecipa” a determinare il risultato dell’esperimento: fa decadere o meno le particelle osservate (il famoso “Gatto di Schrodinger”). Uno dei principi della cibernetica, che studia le interazioni tra l’uomo e la macchina, è considerare il sistema uomo-macchina (un traduttore che scrive al computer? una signora col pacemaker? un pilota di formula uno?) come “sistema di primo livello”, dove gli elementi umano e macchinico com-partecipano alla creazione di significati, e sono descritti da un altro partecipante attivo, lo scienziato che osserva (o il computer che registra, la videocamera che riprende, l’apparecchio ecografico che sonda il petto... a loro volta “osservati” da qualcun altro, e così via.).
I confini tra le parole non sono stabili, questo mi ha insegnato la traduzione di Laplantine. I confini tra i “campi del sapere”, o sono altrettanto labili, o sono addirittura fittizi. La realtà, se esiste, necessita di infinite traduzioni, che ognuno compie più o meno volontariamente per comprendere ciò che lo circonda. Tradurre è un atto forzatamente imperfetto, un processo: per questo è vitale.