Traduzione da: Saggistica argentina
Il poeta è uno che lascia la porta aperta. Da quella porta guarda fuori. Perché entri il bene la porta deve restare aperta, ma proprio per questo ci entra anche il male. Quell’apertura è una feritoia e una ferita. Per sopportare di avere una ferita che non si rimargina mai – la ferita del vivere e del sentirsi un essere solo con la comunità degli esseri umani e di tutte le cose – occorre coraggio, la qualità essenziale del cuore – visto che gliene deriva anche il nome –: l’ampiezza di possibilità del cuore. Sapere farlo indurire, sapere farlo ammollare… E il coraggioso autentico – interamente fermo, e interamente tenero – farà ricorso a tutta la sua forza proprio nel rispondere ai colpi della tenerezza. Come accadeva ad Alfonsina Storni, tenera e indifesa nei versi, dura, tra l’altro, negli interventi sulla stampa periodica.
Su chi esercita la propria ironia Alfonsina Storni, negli articoli per «La Nación», per «La Nota», che ora si raccolgono in Cronache da Buenos Aires (Casagrande, a cura di Hildegard Elisabeth Keller)? Sarebbe facile dire: su tutto e su tutti. Soprattutto sulle donne, che ne sono l’unico argomento. Ma per colpire chi? Per colpire presumibilmente tutti, sé compresa. Per colpire la società in blocco che era essenzialmente, costituzionalmente maschilista. Di tale maschilismo nessuno era incolpevole. È troppa l’ironia con cui la femminista Alfonsina parla delle donne, perché non ci sia dietro qualcosa di molto serio.
Oppure è cinismo bonaerense, semplicemente? Se si vive a Buenos Aires si può essere soltanto cinici? Un po’ come se si vivesse a Roma (e basta pensare a Moravia, Brancati, Flaiano)? Oppure quel tono è una conseguenza del taglio scelto per i suoi articoli, perché la lettura sia amabile, senza troppo impegno per il lettore? In tal caso, dei vari toni del gioco o dello scherzo, ha trovato che quello dell’ironia – fino alle punte del sarcasmo – le fosse il più congeniale. Ma come non esiste un solo umorismo, non c’è una sola ironia. È un tono dalle infinite sfumature. Per Jules Renard, era «un elemento della felicità». Quasimodo ha scritto che «per un po’ d’ironia si perde tutto». Rilke consigliava di andare in profondità, «là l’ironia non arriva». Secondo lo scrittore catalano Josep Pla è l’impossibilità di dire qualcosa. Calvino, infine, ne dà la definizione più articolata: «Rispetto alla lacerazione, l’ironia è l’annuncio di un’armonia possibile, e rispetto all’armonia è la coscienza della lacerazione reale. L’ironia avverte sempre del rovescio della medaglia.»
Quegli articoli vogliono essere scanzonati, ma poi, in una o due frasi seminascoste, colpiscono nel segno in modo inaspettato, come se il vero discorso fosse un altro. La Storni, come ogni vero scrittore, parla di una cosa per parlare di un’altra. Il discorso essenziale, sottinteso, è serissimo – la convivenza tra gli esseri umani, la condizione della donna (sempre in subordine), la civiltà, la vicinanza alle cose della natura, l’amore: alcuni dei temi eterni della poesia –, ma qui si deve scherzare un poco, sembra dire, siamo su un giornale, non è il luogo per i grandi temi… Per quelli c’è la poesia. Però non sempre riesce a tenerli fuori, quei temi, e compaiono a volte in interi articoli – «Le elette del signore», «La riflessione di un bambino», «Il matrimonio» –, in cui l’ironia ha meno campo. Negli altri, si lasciano intravvedere nelle crepe del discorso.
Gli articoli di Alfonsina Storni sono scritti con una specie di risentimento brioso. Dando al sostantivo il suo valore più neutro: del sentire fortemente, intensamente. E alcuni sono disegnati con mano felicissima – su tutti, forse, «Le manicure», «Acquarellista di pennello minore», «La perfetta dattilografa»… – che passa da un tratto all’altro del disegno che va tracciando con ilarità e leggerezza. Da dover dar ragione, qui, a Jules Renard, per il quale l’ironia è un elemento della felicità. Riguardo invece ai giudizi «negativi» tra quelli citati, come il consiglio rilkiano di andare va in profondità, dove l’ironia non arriva, di questo abbiamo la prova evidentissima nell’opera più essenziale di Alfonsina Storni, quella poetica.
La scrittura ha una tara costituzionale, di cui non può liberarsi. Lo scrittore, la scrittrice, partono da una grande sproporzione tra parole e mondo, parole e cose. Il ruolo delle parole nella vita sociale è molto più ridotto di quanto gli scrittori credano. Per loro, invece, sono tutto. Ciò comporta che un poeta o una poetessa non siano veramente compresi mai. Hanno affidato alla parola un compito immenso: il modo più attendibile, più certo di dare al mondo un ordine che non ha; la sede di un’umanità che altrove – nella vita quotidiana, nella realtà che sembra vicina (e che noi ci stiamo dentro) ma è lontana come Andromeda – a volte pare del tutto perduta; ancora di salvataggio…
Nella chiusura di un biglietto inviato nell’imminenza della morte, Alfonsina Storni non dirà: non posso più vivere, ma «non posso più scrivere», dandoci la conferma che le due cose coincidevano. Da un certo punto in poi della sua vita – o fin dalle prime prove de La inquietud del rosal – si era consegnata alle parole come alla propria sola salvezza, allo stesso modo che in quelle ore definitive, probabilmente preparate a lungo, si è consegnata al mare.