Traduzione da: Letteratura serbocroata - Traduzione di Ljiljana Avirovic
Coinvolgente e cinico, ironico e insieme epico è il ritorno di Karlo Adum nella natia Sarajevo a bordo della sua Volvo arancione del ’75. Il protagonista di “Freelander”, romanzo denso e critico che diventa acceso affresco storico sulle contraddizioni dei Balcani, è un professore in pensione, vedovo, che vive a Zagabria completamente isolato; il suo unico saltuario interlocutore è il Postino, il quale gli consegna un giorno il telegramma che spezza la sua routine: gli si comunica la morte del vecchissimo zio, l’odiato fratello di suo padre, che richiama a Sarajevo per la lettura del testamento i parenti rimasti. Karlo decide di affrontare, a bordo della sua automobile, il viaggio fino a Sarajevo, in cui non ha mai rimesso piede. La notte prima di partire sogna, dopo anni che non gli capitava più: si tratta di un sogno complicato e tentacolare che ruota attorno a una bara, in cui alla fine appare lui morto. L’indomani a bordo dell’inseparabile Volvo – la cosa che gli è più cara – lascia Zagabria munito di una pistola e con la consapevolezza che non ci tornerà più. Il senso di avventura che lo invade lo fa sentire più giovane di dieci anni. Ma la partenza riporta a galla anche ricordi lontani e traumatici, come la volta in cui la mamma Cica lo aveva mandato alla colonia estiva ma, per errore, sulla corriera dei bambini mongoloidi, in balia di educatori disumani e violenti. Fermatosi all’autogrill, osserva con disprezzo le orde di turisti polacchi che ora invadono la Croazia e sentenzia: “La nostra è un’identità da camera d’albergo e da reception, poiché dal punto di vista storico siamo soltanto dei camerieri che bramano una buona mancia.” E rimugina sulle sfortune della sua carriera scolastica rivivendo l’odio per un collega. Al casello del confine teme il controllo, a causa della pistola; ma tutto fila liscio e in un attimo si ritrova in Bosnia, paese in cui pensava che non sarebbe mai tornato. Le indicazioni stradali sembrano ricordare continuamente le rivendicazioni di quelle terre tra serbi e croati al punto che Karlo arriva a inveire: “Vada a farsi fottere quello storico che non sa il cirillico, ma si fottano pure i segnali stradali che indicano villaggi inesistenti.” Lui è convinto di essere un uomo che non sa quello che non gli interessa e che può dimenticare quello che non vuole ricordare. Un incidente sulla strada lo colpisce e lo commuove: vittime sono alcuni cavalli agonizzanti che giacciono in un lago di sangue, assistiti dai loro padroni e da una donna che, come un’eroina melodrammatica, canta agli animali un’ultima nenia. Fatalmente ripensa ai suoi genitori: il padre, assente, vittima di un incidente alla mano causato dall’odiato zio, e la mamma Cica, che è passata tutta la vita da un amante all’altro (generali tedeschi e italiani, ustascia, infine comunisti). Un emozionante salto temporale gli riporta alla memoria gli ultimi giorni della madre malata che non lo riconosce più, fino allo struggente epilogo in cui lei gli confessa che, rimasta incinta, ha abortito e lo lascia dicendogli: “Ora sei venuto per farmi ricordare che non esisti”, quasi a cancellare del tutto la sua esistenza. Molti sono gli incontri del professore prima di arrivare a Sarajevo: un insistente venditore di cd, due strampalati camerieri in costumi ragusei, un poliziotto con cui segue una partita di calcio, un vecchio professore vittima di un incidente. Quando anche la sua Volvo, malridotta, sembra giunta al capolinea, si ricorda il perché lui e sua madre avevano lasciato Sarajevo: da bambino lui aveva causato incidentalmente la morte di un compagno di scuola. Il viaggio gli ha procurato solo brutti ricordi, un malessere crescente e inquietudini per la pistola, anche se sarà l’unico destinatario dell’eredità dello zio. Freelander è infatti il codice del conto bancario dello zio, ed è il modello Land Rover che ha sempre superato la sua Volvo, ma è anche lui, un apolide condannato alla solitudine.
Corrado Premuda