Traduzione da: Poesia svedese
Quanto è utile conoscere la vita di un poeta per comprenderne la poesia? Infinite controversie si sono accese intorno a questa domanda, scuole critiche si sono scontrate e hanno elaborato risposte che, di volta in volta, sono apparse superate per poi riproporsi, dopo qualche anno, con nuova energia e forza polemica e accendere nuove discussioni. Presentando questi brevi ricordi di Tomas Tranströmer credo sia forse più opportuno porsi una domanda diversa, in un certo senso rovesciata: quanto ci è utile la poesia di Tranströmer per comprenderne l’autobiografia?
Che il titolo di questo volumetto del 1993 riprenda quello di una poesia pubblicata dieci anni prima nella raccolta Det vilda torget (La piazza selvaggia) mi sembra un segnale, un’indicazione che non va ignorata. Tranströmer, del resto, è poeta nel senso più esclusivo del termine. Se si fa eccezione per i ricordi che vengono qui presentati e per lo scambio epistolare con Robert Bly, Tranströmer ha pubblicato esclusivamente poesia: quattordici raccolte nell’arco di mezzo secolo, la prima uscita nel 1954, quando aveva solo 23 anni, le ultime due nel 1996 e nel 2004, dopo l’emorragia cerebrale che l’ha colpito, cinquantanovenne, nel 1990. Raccolte mai voluminose, poesia quasi distillata nel tempo, concentrata fino all’essenzialità.
L’essenzialità, la concentrazione, la concisione sono i tratti che tutti i critici mettono unanimamente in risalto nella scrittura di Tranströmer. Un’essenzialità non fine a se stessa, naturalmente, ma strumento adeguato all’obiettivo che il poeta persegue. Difficile, certo, definire quale sia l’obiettivo di un poeta. La poesia consiste spesso proprio negli scarti improvvisi, negli allontanamenti dal fine verso cui il discorso sembra tendere, nelle deviazioni intorno a un oggetto non definibile. Eppure è evidente il lavoro che Tranströmer compie con le parole, con le immagini, con le metafore per raggiungere un obiettivo, per esprimere in poesia, nel modo più compiuto, qualcosa che l’argomentazione o la descrizione priverebbero in larga misura di senso. «Meditazioni attive» ha definito egli stesso le sue poesie: costruzioni linguistiche che si proiettano oltre la lingua, che mirano a risvegliare una consapevolezza e una nuova coscienza. Non sorprende che la sua ultima raccolta consista soprattutto di haiku.
In questa ricerca di essenzialità non c’è spazio per l’effusione degli affetti o per la confessione, l’io lirico è concentrato in uno sforzo di messa a fuoco, in primo luogo della sua relazione con se stesso, con la natura, con il mondo. Lo sguardo si sofferma sui momenti liminari, quelli in cui mondo interiore e mondo esteriore si incontrano; sui momenti di silenzio, in cui una comprensione o una riflessione possono formarsi, preziose e inaspettate. Sempre alla ricerca di un’intuizione sulla natura più profonda e nascosta del sé e del mondo, e sul modo di dare forma a questa intuizione.
Sono questi, credo, gli stessi elementi che caratterizzano la prosa di I ricordi mi guardano: fin dalle prime righe, in cui il poeta paragona la propria vita (ogni vita) a una cometa. Il nucleo, compatto, è formato dalle esperienze dell’infanzia, mentre la coda si fa via via più rarefatta quanto più si allontana dal nucleo, quanto più gli anni trascorrono. I ricordi della maturità e della vecchiaia sono distinti, chiari, facilmente ricostruibili e ordinabili, ma è nell’infanzia che si verificano gli eventi decisivi. È dunque intorno a quel nucleo solo parzialmente recuperabile, solo parzialmente conoscibile che si affanna il lavoro della memoria, perché lì sono custoditi i misteri dell’aprirsi dell’io alla vita, della sua relazione con la morte.
E proprio qui, anche, sta la più evidente differenza tra la prosa e la poesia di Tranströmer: mentre la poesia fissa lo sguardo su un’intuizione, su una rivelazione di senso, e sull’istante in cui l’io ne fa esperienza, la prosa dei ricordi ricostruisce il racconto di come l’io sia giunto a quell’esperienza, la catena di eventi esteriori e interiori che l’ha reso capace di viverla. Uguale rimane l’atteggiamento dell’autore, scienziato dell’anima – e Tranströmer, del resto, è psicologo di professione – che raccoglie tasselli di vissuto, li osserva, li collega per trarne comprensione, per avvicinarsi al nucleo inconoscibile. Due, in particolare, mi sembrano i racconti che costituiscono soglie, momenti di passaggio di fondamentale importanza nella ricostruzione della maturazione del poeta: l’episodio in cui Tomas bambino si perde nel brulichio della città di Stoccolma e quello in cui, adolescente, cade preda di un’angoscia che lo tormenta durante la notte e gli fa temere per la sua salute mentale. Eventi che assumono nel ricordo il significato di vere e proprie prove iniziatiche: bambino, Tranströmer si perde in uno spazio che non controlla (o, meglio, che in un primo momento crede di non controllare) e dunque perde il controllo di sé, in un’esperienza che richiama da vicino la sensazione della perdita dell’identità descritta nella prosa poetica Namnet (Il nome), del 1970. È, sottolinea il poeta, la sua prima esperienza della morte. Ma da questa «morte» egli esce con una nuova consapevolezza della propria forza, con una nuova fiducia in se stesso. se questa prima prova consiste in un incontro con la morte, la seconda nasce dalla rivelazione del potere della malattia. Come il principe Siddharta, Tranströmer rimane sconvolto dall’improvvisa consapevolezza della minaccia che costantemente incombe sugli uomini. ma anche da questo passaggio nell’oscurità egli esce raggiungendo un nuovo equilibrio. L’autobiografia non dà spiegazioni o descrizioni su come egli esca dalla notteiniziatica, si limita ad alcune allusioni: la musica, la maturazione fisica, il discutere di filosofia con gli amici. Ed è la letteratura a fornire le parole per descrivere questa nuova esperienza di smarrimento e di riconquista del controllo: con un doppio, implicito riferimento a Dante e a Strindberg, il poeta legge la sua crisi adolescenziale come un purgatorio che aveva assunto l’aspetto di un inferno.
I libri, d’altronde, rientrano in quel reticolo di relazioni che Tranströmer bambino e adolescente intesse per conoscere il mondo e tracciarne una mappa. Già nell’infanzia lo troviamo intento, aspirante scienziato linneano, a scoprire, raccogliere, esaminare. A costruire, insomma, quell’enciclopedia personale che ogni essere umano porta in sé e di cui parlerà nella poesia del 1989 Kort paus i orgelkonserten (Breve pausa nel concerto d’organo). Nel ricordo dei suoi primi anni, il poeta maturo riconosce nel più giovane se stesso l’identica acutezza dell’osservazione, la stessa attenzione alla ricchezza del mondo esteriore e di quello interiore, lo stesso sforzo di comprendere la loro interrelazione che costituiscono le più evidenti caratteristiche della sua produzione poetica.
Significativamente questo breve libro di ricordi si conclude con la scoperta, da parte del Tranströmer liceale, della metrica classica, della capacità della forma di elevare il banale al sublime, di rivelare gli abissi di senso che si nascondono dietro le apparenze del quotidiano, abissi che una lingua non poetica non è in grado di circoscrivere e tanto meno afferrare. La via della ricerca futura è aperta e segnata: dai primi tentativi poetici dell’adolescenza alle creazioni dell’età matura, la sfida di elaborare una forma capace di esprimere con nitore e bellezza il mistero dell’uomo e del mondo rimarrà il filo conduttore dell’opera di Tranströmer.
Fulvio Ferrari
(I diritti di questo articolo sono protetti dal Copyright © Iperborea Srl, pubblichiamo questo articolo su La Nota del Traduttore per gentile concessione dell'editore)