Su La babysitter e altre storie di Robert Coover, attraverso gli occhi di chi l’ha tradotto
Articolo di: Camilla Pelizzoli
Il programma di Bookcity 2019 è stato denso e pieno di incontri rivolti ai più svariati ambiti editoriali. Non sono mancati, ovviamente, i traduttori; e a un caso di traduzione molto particolare era dedicato l’incontro del 17 novembre al Laboratorio Formentini, incentrato sulla nuova uscita per i tipi di NN La babysitter e altre storie, di Robert Coover, uno degli autori statunitensi postmoderni più ammirati.
L’editore ha scelto anche, fatto più unico che raro, di affidare ognuno dei trenta racconti della raccolta a un diverso traduttore. Da questo punto focale è partito l’incontro, con e moderato da Alberto Rollo, insieme a Luca Briasco, Franca Cavagnoli e Martina Testa, tre dei trenta impegnati nella particolare impresa, attuata per riuscire a rendere le molteplicità dell’autore in tutta la sua produzione.
Coover, come si anticipava, ha vissuto alterne fortune in Italia, che Rollo ha riassunto in tre stagioni: quella dell’apparizione negli anni ’60; poi un ritorno in libreria negli anni ’80, con un’esistenza “carsica”, per usare un termine di Luca Briasco, pubblicando con Guanda, Fanucci, Feltrinelli; e infine il ritorno alla notorietà grazie all’opera di minimum fax, che tanto ha fatto per gli autori postmoderni in Italia (inutile citare D.F. Wallace), e altri editori, tra cui ora NN. Proprio per questo alcuni dei racconti sono ri-traduzioni, con tutte le conseguenze del caso.
Ad aprire le danze è Martina Testa, che in questa raccolta ha tradotto “Variazioni su Riccioli d’oro”. La traduttrice ha in particolare affrontato il tema della letterarietà di Coover, dicendo: “avere a che fare con un testo così consapevolmente tale, che prescinde così dall’identità dell’autore (mentre ora l’io narrante o autoriale è quasi innervato nella storia) mi ha dato un piacere che non provavo da tempo”. In particolare, ha sottolineato uno dei punti fondamentali in questa corrente letteraria, che si ritrova anche in DeLillo o Pynchon, ovvero il potere dell’artificio della parola, che ci tiene in vita, un po’ come nei classici come Le mille e una notte, o nelle novelle boccaccesche, o in Cervantes, che come sottolinea Alberto Rollo è chiara ispirazione di Coover.
Per Franca Cavagnoli, che si è occupata di “Il rabberciatore”, la difficoltà maggiore è stata la particolare forma del racconto, quasi un prosimetro in cui poesia e prosa si fondono continuamente. “C’è una rarefazione del senso, e tra assonanze, allitterazioni, enjambement e rime interne ho dovuto scegliere, come diceva Pound parlando di tradurre la poesia, cosa volevo convogliare, non potendo riportare tutto nella nostra lingua. Spesso mi sono aggrappata a melopea e a immagini forti, per trovare e rendere al meglio i punti in cui il senso affiora, febbrile e precario – non essendoci nemmeno la punteggiatura, è stata una sfida.”
Ha sottolineato, inoltre, il gran lavoro redazionale fatto, che è riuscito a non uniformare e appiattire le trenta voci; e applaude al progetto, perché un singolo traduttore a suo dire avrebbe rischiato di perdersi cercando di seguire Coover in tutte le sue varianti.
Luca Briasco è l’unico presente che si è occupato di una ri-traduzione, nello specifico del racconto eponimo della raccolta. Tra l’altro, affrontando dei timori: avendo dedicato la tesi di dottorato proprio all’opera di questo autore, temeva che tradurlo potesse significare rimanere paralizzato dalle informazioni accumulate su lui, la sua opera e il background dell’autore.
Si è parlato così, grazie alla sua peculiare conoscenza dell’autore (anche personale: per la tesi l’ha intervistato, negli anni ’90, alla Brown, università dove Coover insegna), del suo stile, i suoi temi.
Scopriamo in questo modo un autore che prende testi e attività comuni, condivisi (lo sport, la tradizione, le fiabe, la Bibbia) e smonta tutto perché il lettore possa arrivare a una consapevolezza nuova. Calibrato e consapevole anche nei suoi esperimenti più folli, che pur potendo sembrare disordinati non sono casuali, tanto da non permettere al lettore di uscire dai binari stabiliti, divertente, e con la capacità di piantare parole che tornano nel testo e la cui occorrenza cambia il fluire del testo – un vero rompicapo per i traduttori – e particolarmente attento alla contemporaneità (Briasco ci dà, come aneddoto, la notizia che quando era andato a intervistarlo si stava occupando, con particolare acume sugli sviluppi in corso, di un corso sull’ipertesto).
Ed è stato impossibile evitare il confronto con il resto della generazione postmoderna e con gli autori della leva immediatamente successiva, come David Foster Wallace. Autore che, come ricorda Martina Testa, riconosceva la verve destrutturante e provocatoria, spinta dalla reazione contro la dittatura valoriale del perbenismo, ma sentiva talvolta questo tipo di narrazioni come una casa degli specchi.
Inoltre, per noi che, in Italia, abbiamo ripreso e tradotto tardi questi autori, manca la prospettiva critica della lettura di questi libri attraverso lo sguardo della controcultura statunitense anni ’60, come giustamente aggiunge Luca Briasco. Leggerli come autori di quell’epoca potrebbe aiutarci a vederli e comprenderli meglio, e Coover dà una chiave inedita in questo senso, con un umorismo nero che richiama Vonnegut.
Da un autore così sorprendente, non ci si poteva aspettare niente di meno di una sfida da far fronteggiare a un insieme armonico e differente di traduttori. Alla conclusione dell’incontro, il desiderio era quasi di invitare tutti gli altri traduttori, e man mano ascoltarli per cercare di capire tutti i lati di un lavoro redazionale così poliedrico, che senz’altro darà modo di cogliere le varie sfumature non solo dell’autore, ma anche delle sue “voci” italiane, portando in libreria quello che è non solo un compendio della miglior narrativa breve di Coover, ma anche, quasi, un saggio di traduzione.
Camilla Pelizzoli