La luce è più antica dell’amore di Ricardo Menéndez Salmón, pubblicato in Spagna nel 2010 e arrivato in Italia quest’anno grazie alla brillante traduzione di Claudia Tarolo per Marcos y Marcos, è un romanzo profondo, complicato, intimo e molto ambizioso. Un libro destinato a durare, insomma.
Strutturato in modo molto frammentario, il libro è composto da sei capitoli principali suddivisi a loro volta in varie parti per un totale di ventidue sottocapitoli. E anche la trama è di non facile sintesi, dal momento che vengono narrate in maniera non lineare tre storie diverse legate da una cornice che cerca di dare unità a tutta l’opera. Protagonisti sono tre pittori vissuti in epoche diverse che si trovano in un momento complicato, e quindi risolutivo, della vita; il punto fondamentale, però, è che tutti e tre rappresentano la lotta dell’artista con la propria ispirazione e ognuno di loro è chiamato in qualche modo a manifestare la volontà di difendere la propria opera.
Il primo protagonista è Adriano de Robertis, pittore toscano del Trecento che, in seguito all’oscuramento da parte della Chiesa del suo dipinto Vergine barbuta (nato dal dolore per la perdita del talentuoso figlio a causa della peste del 1348), accetta di trascorrere il resto della vita tra gli appestati di un lazzaretto veneziano. Il secondo artista è Mark Rothko (l’unico realmente esistito), pittore lettone naturalizzato statunitense che, annichilito dall’intento di dipingere il nulla, muore suicida nel 1970. Il terzo personaggio, il russo Vsevolod Semiasin, dopo una vita errante e avventurosa con tanto di incontro al Cremlino con uno Stalin in preda ai fumi dell’alcol, finisce in un ospedale psichiatrico dove divora le proprie tele nel tentativo estremo di interiorizzare l’arte.
A incorniciare queste storie, come si è detto, ce n’è una quarta, quella dello scrittore spagnolo Bocanegra, alter ego dell’autore e protagonista dei capitoli che fanno da appendice a ognuna delle tre narrazioni principali. Nella prima parte, ambientata in un liceo di provincia nel 1989, incontriamo un giovane Bocanegra che inizia a misurarsi con il proprio talento letterario, mentre nella seconda lo ritroviamo nel 2008 impegnato nella stesura di un volume sulla vita di Rothko e alle prese con il dolore per la malattia e la morte della seconda moglie. Nella terza parte, che chiude anche il libro, Bocanegra riceve il premio Nobel per la letteratura nel 2040 con un discorso in cui fa riferimento all’opera da lui giudicata più importante,
La luce è più antica dell’amore.
Ulteriore collante di tutta la narrazione è la torre del castello di Sansepolcro, luogo con il quale tutti e tre i pittori protagonisti del libro hanno avuto, in un modo o nell’altro, una relazione e in cui, secondo Rothko, “si respira il male”.
La luce è più antica dell’amore è un’opera di non facile fruizione, che mescola generi letterari diversi – saggio, romanzo storico, (auto)biografia, metaracconto – e utilizza in modo libero numerose tecniche narrative, soprattutto analessi e prolessi. Le tematiche, come già anticipato, riguardano la capacità umana di creare la bellezza e l’impotenza, sempre umana, davanti alla sua distruzione e il sacrificio, talvolta estremo, dell’artista per difendere la propria opera; al disopra di tutto, comunque, rimane il potere salvifico dell’arte, radicato nel mistero della sua inutilità. Non è un caso, quindi, che il libro si concluda affermando che i frutti dell’intelletto servono “a consolare, a liberarci dalla tristezza di un mondo in cui la dignità umana viene crocifissa ogni giorno”.
Alessandra Ribolini