Traduzione da: Letteratura ungherese - Traduzione di Vera Gheno
Per me, come credo per molti altri traduttori, non è facile parlare del mio lavoro. Al di là del naturale senso di smarrimento nell'accostarsi all'opera da tradurre, si tratta di un'attività molto complessa e costantemente in bilico tra due "forze" opposte. Da una parte il traduttore crea: crea un prodotto finito che differisce, sempre e comunque, da quello di partenza, perché egli vi lascia inevitabilmente una propria traccia. Dall'altra, il traduttore si deve porre come tramite: più lascia "scorrere" attraverso di sé la traduzione senza "interferenze" e più il suo lavoro sarà di qualità. Di volta in volta, si tratta di mediare tra il mantenere per quanto possibile il testo originario e il desiderio di personalizzare, in qualche modo, il testo. Credo che questa sia una tendenza naturale e inevitabile: il traduttore è, più o meno apertamente, uno scrittore lui stesso, e sa che non basta pedissequamente tradurre per... "tradurre".
Tradurre può a tratti diventare un'attività frustrante: capita, almeno a me, di cercare la parola giusta per ore, talvolta per giorni. E ancor più frustrante è quando tale parola salta in mente, a mo' di illuminazione, solo rileggendo il testo ormai irrimediabilmente stampato.
Va detto che, nonostante tutti i possibili sforzi, la corrispondenza perfetta tra due lingue è molto difficile, se non praticamente impossibile da ottenere. Si dice spesso che per una traduzione ottimale l'ideale sarebbe essere non bilingui, ma biculturali: uno scritto, ogni scritto è infatti intessuto di referenze che vanno ben al di là dell'ambito linguistico, e che necessitano - o necessiterebbero - della conoscenza di un certo milieu culturale, comprendente elementi non accademici, che non possono cioè essere acquisiti a scuola o rintracciati in dizionari o altri testi: modi di dire, definizioni da varietà linguistiche non codificate (linguaggio infantile, linguaggio popolare, slang) ecc. Da questo punto di vista, posso ritenermi particolarmente fortunata: provengo da una famiglia bilingue e, in più, il fatto di essere una (aspirante) sociolinguista mi rende forse particolarmente conscia di alcuni tipi di problemi linguistici che posso incontrare nel corso delle mie traduzioni.
L'ultima opera su cui ho lavorato è un volume di letteratura per ragazzi: Tündér Lala, in italiano Lolò, il principe delle fate, di una delle più quotate scrittrici ungheresi contemporanee, Magda Szabó. La storia si svolge nel Regno delle Fate, immaginato come parallelo al mondo umano, e con una geografia in un certo senso integrata nella nostra realtà: il Regno ha dei confini che gli umani possono varcare solo con grandissimi sforzi, perché rappresentati da montagne insuperabili e cancelli invisibili, mentre le Fate possono fare visita al mondo degli umani e anzi, talvolta vi si recano per delle specie di "scampagnate". In particolare, nell'opera vengono seguite le vicende di Lolò, figlio della regina delle fate, Iris, che la madre ha trovato dentro a un frutto di fico magico come dono per la sua incoronazione. Lolò, educato a una fatitudine perfetta, mostra, invece, inspiegabili tratti di "imperfezione": è inquieto, curioso, imprevedibile, tutte caratteristiche normalmente estranee al mondo delle fate: "Non gli piaceva ballare la danza dei rubini, viaggiare in una bolla di sapone, esercitarsi negli incantesimi di base che si studiavano nelle prime classi della scuola delle fate, e non gli piaceva neanche stare, di tanto in tanto, a non fare niente, seduto a chiacchierare tra i fiori, cosa che solitamente era un passatempo gradevole per ogni fata. Lolò era costantemente affaccendato in qualche attività, smontava, aggiustava, martellava [...]". La sua inquietudine è forse causata da una malattia? Questo è ciò che pensa Aterpater, il più grande mago del Paese delle Fate, cercando di convincerne la stessa Iris. La "stranezza" di Lolò rappresenta il punto di partenza della vicenda, ricca, fino alla fine, di colpi di scena.
Si potrebbe pensare che tradurre una favola offra meno difficoltà di altri tipi di opere. Premesso che credo non esista un'opera "facile" da tradurre, uno dei problemi con cui più comunemente ci si scontra nel caso di libri di fiabe è la resa dei nomi parlanti (si pensi, per esempio, a Harry Potter), delle filastrocche, delle formule magiche.
In questo caso, per esempio, i problemi sono iniziati da un concetto di base: in ungherese, come in molte altre lingue, i sostantivi non hanno genere. In particolare tündér, ovvero fata, è un termine che si può riferire sia a esseri femminili che maschili. La traduzione letterale del titolo, per esempio, sarebbe stata La fata Lala, che difficilmente avrebbe reso l'idea che il protagonista è uno "scugnizzo" e non una bambolina. Il primo passo, quindi, è stato di creare ex novo un termine da alternare a fata quando ci fosse stato bisogno di sottolineare il genere maschile del personaggio: così, con licenza poetica, ho cre-ato fatino, ovvero 'giovane fata di sesso maschile'. Per quel che riguarda il nome del protagonista, si trattava di cercare un nome italiano che fosse "carino" quanto lo è Lala, diminutivo di Lajos 'Luigi', in ungherese. Scartato Gigi, foneticamente troppo lontano dall'originale e che, soprattutto, avrebbe creato omonimia con un altro personaggio del libro, il piccolo unicorno Gigi, sono infine arrivata a Lolò: in fondo, considerando che in ungherese la a "breve", non accentata, può venire accostata, nella pronun-cia, a una o molto aperta dell'italiano - come in [uovo] - Lala-Lolò è una corrispondenza che tutto sommato può funzionare.
Un'altra sfida è stata data dalla presenza di filastrocche e giochi di parole: immagino che tutti coloro che abbiamo mai dovuto tradurre questo genere di composizioni si siano trovati a scegliere il giusto "incrocio" tra una traduzione letterale e una rispettosa resa fonosimbolica del testo. In questo caso la traduzione è stata semplificata dal fatto che in molti casi nelle filastrocche, o formule magiche, spesso contavano di più il ritmo e la forma rispetto al contenuto. Questo, ovviamente, ha permesso di "giocare" con la lingua e di arrivare a risultati relativamente soddisfacenti, come L'arcobaleno nero è / guai a te e anche a me! per Fekete a szivárvány is, baj jön rád is, baj jön rám is!.
Certo, non è facile lavorare con un idioma morfosintatticamente così differente dall'italiano come l'ungherese che, oltretutto, appartenendo al gruppo delle lingue agglutinanti, è molto "stringato": spesso concetti anche molto complessi sono espressi con un solo termine. Nel terzo capitolo, per esempio, viene introdotto il personaggio di una bambina dai capelli rossi che, finché Lolò non ne fa la conoscenza, viene chiamata a vöröshajú, cioè 'la rossa': per evitare che il lettore pensasse a una "fatalona", perché in ungherese la definizione non ha assolutamente la connotazione di la rossa in italiano, si sarebbe forse potuto specificare ogni volta la bambina dai capelli rossi, con esiti disastrosi dal punto di vista della fluidità testuale. Alla fine, quindi, è stato scelto di chiamare il personaggio capelli-rossi, definizione sicuramente meno ricca di connotazioni rispetto a la rossa.
Lolò, principe delle fate nasce come libro per ragazzi. Appartiene però a quella particolare categoria di scrittura "per bambini" - di cui illustri esempi possono essere considerati Pinocchio o Alice nel paese delle Meraviglie - che, grazie agli elementi di simbolismo che contiene, può rappresentare una lettura piacevole anche per degli adulti. L'aspetto forse più affascinante di quest'opera è la capacità della scrittrice di creare, in relativamente poche pagine, un piccolo mondo, quasi una cosmogonia-cameo, popolata di personaggi che rimangono nel cuore: a parte Lolò, con le sue aluzze intercambiabili (quelle piccole, da scuola, quelle da gala per le serate importanti...), troviamo la splendida Iris, madre comprensiva e preoccupata ma anche forte e rispettata sovrana, il farmacista Brill e sua moglie Pomatina, destinati a un ruolo ben più centrale nella storia del Paese delle Fate di quanto essi stessi vorrebbero; i saggi consiglieri della regina: Giustino, l'esperto di leggi, Omicron, il precettore delle fate; Lardello, il ciclope buono e ovviamente Amalfi, il prode capitano con un debole (o forse qualcosa di più) per la regina... e ancora, il povero Scaldone, condannato a riscaldare incessantemente le tubature dell'acqua calda per tutto il Paese delle Fate, il piccolo unicorno Gigi, che possiede un corno magico e svitabile in cui legge piccole verità creando, ovviamente, notevole scompiglio con le sue esternazioni incontrollabili (perché la verità non può essere taciuta...). La lista potrebbe continuare: ogni personaggio, anche destinato a vivere solo per poche righe, per lo spazio di una scena, è stato dotato di tratti precisi. In ognuno di loro la Szabó è riuscita a infondere un soffio di vita, facendo sì che divenisse indimenticabile.
La storia, dopo queste premesse, passa quasi in secondo piano. Chi leggerà il libro, credo che alla fine rammenterà quasi più i personaggi incontrati che le vicende, e prenderà congedo dal microcosmo creato dalla scrittrice con rammarico, forse sperando che venga scritto un Lolò 2.
Vera Gheno