Intervista a Giuseppe Dierna, boemista

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 6 novembre 2021

Giuseppe Dierna è nato a Udine, ha studiato alla Sapienza con Angelo M. Ripellino, si è laureato con una tesi su B. Hrabal. Ha un Dottorato di Ricerca in Slavistica e si è guadagnato tre volte l'idoneità da Professore Ordinario di Lingua e letteratura ceca, ma nessuna Università era interessata. Ha scritto saggi sulla letteratura ceca del Seicento e del Novecento, ha tradotto tra l'altro 7 volumi di B. Hrabal, 3 di M. Kundera (tra cui anche L'insostenibile leggerezza dell'essere) e di J. Škvorecký, autori surrealisti (V. Nezval, J. Švankmajer ed Eva Švankmajerová, P. Řezníček), Le vicende del bravo soldato Švejk di J. Hašek, J. Weil, V. Vančura, K. Čapek. Ha ricevuto nel 2011 la medaglia «Artis Bohemiae Amicis» del Ministero della Cultura Ceca per il contributo alla conoscenza della cultura ceca in Italia, e nel 1994 il «Premio Teatrale Angelo Maria Ripellino» per la traduzione...

Buongiorno Giuseppe, quando hai scelto di imparare la lingua ceca?
È stato un percorso un po’ impervio. Stavo al terzo anno di Ingegneria, con gli esami del biennio già completati e un primo esame del terzo già dietro le spalle, quando decisi che la letteratura (soprattutto le letterature slave: quella russa, quella ceca, quella polacca, e poi quella austriaca) non mi bastava più come hobby e che volevo dedicarmici a tempo pieno. Dietro quella scelta c’erano però già le affascinanti letture dei saggi di Angelo Maria Ripellino sull’avanguardia russa e quella ceca, sulla tradizione surrealista in Boemia, su Majakovskij e Pasternak, su Andrej Belyj e il romanzo Pietroburgo, sul poeta ceco Holan, e soprattutto le traduzioni – fatte da lui o dalla moglie Ela Hlochová – di autori cechi del Novecento: Holan, Halas, Hašek, Fuks, Hrabal… traduzioni sempre molto belle, eleganti, ben curate, e ogni volta accompagnate da un prezioso saggio breve che dava informazioni ma soprattutto faceva sognare… Seguivo quindi le lezioni di letteratura russa di Ripellino e studiavo la lingua e la letteratura ceca, che però alla Sapienza erano in pessime mani. Quando nel ‘78 Ripellino morì decisi che mi sarei dedicato esclusivamente alla letteratura ceca.

E quando hai deciso di diventare traduttore letterario?
Fu per caso. Mi ero laureato da un anno quando mi proposero di tradurre le Leggende praghesi di Jiří Langer. Accertai e la cosa mi piacque, per cui nei dieci anni successivi, mentre conseguivo un Dottorato di Ricerca in Slavistica (era il primo ciclo: eravamo gli apripista), mentre scrivevo saggi e passavo una buona parte del mio tempo a Praga, mi trovai a tradurre una decina di libri, tra cui anche i primi tre volumi di Milan Kundera per Adelphi, che dovetti firmare con lo pseudonimo di Antonio Barbato, perché altrimenti non avrei mai avuto dalle autorità il visto all’epoca necessario per entrare in Cecoslovacchia.

Che posto occupa a tuo parere la narrativa ceca in Italia?
Un posto purtroppo certamente inferiore al reale valore dei suoi scrittori e della cultura ceca in generale, e ciò non dipende solo da una certa contrazione del numero dei lettori o dalla perdita di credibilità della pagine culturali dei quotidiani, che erano state invece – fino a un paio di decenni fa – un importante cinghia di trasmissione tra editori, autori e lettori. Il problema della narrativa ceca è infatti aggravato dal fatto che negli ultimi trent’anni gli autori cechi (anche un autore della forza di un Hrabal, o un poeta come Holan, o lo stesso Karel Čapek, o Vančura, o Il bravo soldato Švejk di Hašek nei Meridiani, per citarne solo alcuni) sono stati tradotti in un italiano che in genere non viene consentito a traduttori da altre lingue più note (o dovrei dire più importanti?): insomma, nessun francesista si sognerebbe di affidare a mani vistosamente inesperte, completamente estranee al mondo della letteratura, autori come Céline, Beckett, Rabelais, Queneau... Beh, i boemisti lo fanno.

Le opere tradotte in italiano sono rappresentative degli autori di oggi pubblicati dagli editori cechi?
Dato lo scarso numero di opere ceche tradotte in Italia, non si può parlare di rappresentatività, però neanche si può dire che siano ignorati. La maggior parte di questi testi esce però, tradotta con superficialità, in case editrici piccole e senza una vera distribuzione in libreria, case editrici che talvolta sembrano più interessate a pubblicare testi che a raggiungere potenziali lettori.

Che posto occupa l’insegnamento del ceco e della letteratura ceca in Italia?
Diciamo che in questi ultimi trenta, quarant’anni l’insegnamento di Lingua e Letteratura ceca è stato un po’ la Cenerentola nelle Facoltà umanistiche in Italia. Il paragone col polacco è qui impietoso. Mentre in questo stesso periodo il polacco raddoppiava o triplicava i suoi insegnamenti nelle Università italiane, risultando oggi insegnato in 13 Università, il ceco rimaneva fermo nelle sue magre posizioni precedenti, o forse meglio: arretrava, perdendo attrattività e studenti. A fronte di tre Professori Ordinari che guidano cattedre di polacco, non ce n’è neanche uno che ne guidi una di ceco, con effetti deleteri sul suo "prestigio". Peraltro, per un trentennio una cattedra di ceco è stata occupata da un linguista francese, col risultato che lì gli studi di letteratura ceca si sono completamente arenati, senza per questo che si formassero le basi per una Linguistica ceca in Italia. Un’altra cattedra è rimasta invece per più di tre decenni di fatto "scoperta" per motivi – per usare un eufemismo – di salute. Le persone uscite in questo lungo periodo dalle Università non hanno poi dato gran prova di sé, sia nel campo delle traduzioni dal ceco che nel campo dello studio della letteratura. Insegnano e traducono letteratura ceca, ma sembra quasi non leggano. E sto parlando di una generazione che ha superato i 50 anni.

Recentemente hai tradotto La fabbrica dell’Assoluto di Karel Capek, un grande classico della letteratura ceca che riscopriamo dopo molti anni nella tua traduzione. Quanto è importante a tuo parere ritradurre i classici?
La domanda prevede oggi, per un boemista, una doppia risposta, e soprattutto una premessa che deriva da quanto detto sopra. Mentre, per tornare al caso Céline, la francesistica si era trovata a dover ritradurre testi usciti negli anni ‘30-’60, quando cioè ancora non era del tutto messa a fuoco (e studiata) la complessità del tradurre, e gli strumenti a disposizione anche scarsi, io mi trovo traduzioni dal ceco al di sotto di ogni minimo criterio di qualità uscite però negli ultimi trenta o quarant’anni (molto spesso solo dieci o venti). Traduzioni che sono completamente da rifare, perché non rispettano nemmeno le pur minime esigenze della pura referenzialità (dicono spesso tutta un'altra cosa), per non parlare poi delle qualità stilistiche dell’originale, del tutto ignorate. Anch’io però credo nella ritraduzione dei classici, magari motivata anche dalla personalità del traduttore, ma credo pure che i nuovi strumenti – teorici e pratici – a disposizione del traduttore gli permettano di progettare una traduzione che operi più una ricostruzione del testo originale che non una riscrittura troppo marcata dall’attualità linguistica. Ma forse è solo un’utopia.

Quali altri autori cechi (o cecoslovacchi) sono maggiormente noti ai nostri lettori?
Non è una lista molto lunga. Ci sono due classici particolarmente vivaci come Hrabal e Kundera. Ci sono ovviamente evergreen come Jaroslav Hašek o Jan Neruda (che però non ha mai potuto vantare traduzioni all’altezza), a cui poi aggiungere il poeta Vladimír Holan e il prosatore Vladislav Vančura.

Oltre a Karel Čapek hai di recente tradotto anche Hrabal: che effetto ti fa, da traduttore, dover affrontare due autori così diversi, e il loro umorismo che qualcuno definisce mitteleuropeo?
Il Čapek più fantasioso, quello che amo di più, quello dei tre romanzi fantautopistici (i due che ho tradotto, più La guerra contro le salamandre), mi piace perché mi permette di costruire frasi che, mentre dicono qualcosa di preciso, qualcosa che ha una sua precisa credibilità a livello della trama, allo stesso tempo fanno anche il verso a un "discorso" precedente, un "discorso" che a sua volta rimanda a qualche precisa "istituzione" che ne diventa bersaglio: Stato, Chiesa, Cultura, Società delle Nazioni, Miti di Potenza, Desiderio di Dominio… questo è Čapek: una satira intelligente, ordinata ma pungente, che sembra non voler salvare nulla o nessuno di quei suoi anni '20-'30, e che naviga nella letteratura come una barchetta nello stagno di casa, prendendo tutto quello che la tradizione gli mette a disposizione: generi narrativi, schemi di racconto, linguaggi settoriali, temi nuovi o anche già ampiamente abusati, trasformandoli in narrazione. In Hrabal senti invece che, fin dall’inizio, lo scrivere è per lui una necessità, che lui non ha bisogno della letteratura come "istituzione" ma al massimo si serve dei materiali che la letteratura gli mette a disposizione, non diversamente però dai materiali che gli fornisce la Realtà, così come un collagista ha bisogno di immagini e ritagli, e di colla per tenerli assieme. Tradurlo è trovarsi davanti a un meccanismo in continua tensione, un congegno sempre potenzialmente esplosivo, e dover reggere ad ogni singola riga il confronto con un testo che si esprime in reiterati scarti dalla norma, in incessanti performance linguistiche che rasentano la poesia, il poemetto in prosa, anche quando parla di stragi di gatti. La sua comicità non cerca le sottigliezze della satira (non ha bersagli specifici a cui mirare), ma procede invece per liberatori scoppi d’ilarità, come nelle comiche del muto, oppure – quasi agli antipodi - il suo umorismo si fa feroce, più vicino all’umorismo nero esaltato da Breton nella sua antologia del ‘39. Ma più spesso tutt’e due assieme.

Lo status del traduttore in Repubblica Ceca è lo stesso che in Italia?
Tradizionalmente la figura del traduttore ha sempre avuto, in Boemia, un forte prestigio, anche perché negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento la cultura ceca era lentamente rinata proprio grazie a una forte ondata di traduzioni. Negli anni del socialismo, quando ogni professione e attività era organizzata in associazioni, si era formato un «Circolo traduttori» che all’inizio degli anni '60 diventa una «Sezione traduttori» direttamente all’interno dell’«Associazione degli Scrittori Cecoslovacchi», con una sua specifica rivista già dal 1957. E quest’organizzazione di traduttori continua – pur con tutti i cambiamenti immaginabili – ad esistere anche oggi, ma autonomamente, accanto ad altri più piccoli raggruppamenti privati. Quindi: maggior prestigio del traduttore (sebbene negli ultimi decenni inficiato da un mercato selvaggio, anche in campo editoriale), e in generale maggiore attenzione alla figura sociale del traduttore e alle sue esigenze anche economiche.

Quanto tempo trascorri di fronte a una traduzione?
Se dovessi quantificare le ore che dedico a una traduzione (rapportandole poi al compenso offerto dagli editori anche più generosi), sarebbe da cambiare professione. Insomma, per usare quasi una tautologia, ci dedico tutto il tempo necessario, cioè fino a che non è stato risolto ogni singolo problema che possa essere sorto, sia nell’interpretazione del testo sia nella resa finale, fino a che insomma la traduzione non suoni come un testo scritto originariamente in italiano. E credo in una sorta di "metodo Stanislavskij" della traduzione: l’identificazione con l’autore e coi personaggi, sempre però all’interno di una visione d’insieme che deve essere sempre rigorosamente "filologica". Per me tradurre è il modo migliore di leggere un libro, di capirlo a fondo. La lettura rallentata del traduttore, estremamente ravvicinata al suo oggetto, lo obbliga a precise scelte lessicali ad ogni snodo del racconto, costringendolo quindi in realtà a definirne ogni volta con precisione il senso; non però quel senso talvolta superficiale che la semplice lettura veloce consegna quasi come un automatismo al lettore. E ogni mia traduzione (se si escludono quelle di Milan Kundera) è stata anche un pretesto per scrivere un saggio su quel libro, per prolungare quindi anche in un’ulteriore scrittura (saggistica, ma non meno "creativa": le virgolette sono d’obbligo) quello che si sarebbe altrimenti limitato al solo piacere della lettura. E un paio di volte mi ha anche divertito preparare delle illustrazioni a collage in accompagnamento a due mie traduzioni: il romanzo nero surrealista Valeria e la settimana delle meraviglie di V. Nezval e La tonsura di Hrabal, che era uscita in anteprima sull’Unità nell’agosto ‘87, in quindici puntate illustrate.

Se potessi cambiare qualcosa del tuo mestiere di traduttore, da cosa cominceresti?
Sento di trovarmi in una posizione un po’ privilegiata nel mio rapporto con gli editori, dopo anni di collaborazione (non certo con tutti quelli con cui ho collaborato). Confesso di non dare tutta quest’importanza alla disputa sul nome del traduttore in copertina (anche se sono contento quando la Voland lo fa), e penso invece necessaria un’adeguata attenzione ai compensi e all’autonomia del traduttore nelle sue scelte linguistiche (certo, quando sono motivate), ma quello che davvero vorrei è che un WWF dell’editoria riuscisse a salvare dal rischio estinzione il lavoro di controllo delle redazioni, la discreta ma fondamentale fatica dei redattori (i due aggettivi sono parimenti importanti), e poi il tocco delicato dei grafici, perché – d’accordo che il lavoro del traduttore si limita alla stesura del testo – ma poi quel testo non lo si può mandare in giro coperto di stracci.