Nato in Iran nel 1954, perseguitato dal regime dello scià e poi da quello di Khomeini, rifugiato politico in Olanda dal 1988, è diventato uno dei più importanti scrittori di questo Paese, costantemente nella lista dei best seller. Con Scrittura cuneiforme conquista il pubblico internazionale. La casa della moschea, votato dai lettori olandesi come la seconda migliore opera mai scritta nella loro lingua, è Premio Grinzane Cavour 2009. Tutti suoi romanzi sono pubblicati in Italia da Iperborea.
Il tema della lingua continua a essere per te motivo di riflessione. Perché hai scelto di scrivere in olandese fin dall’inizio del tuo arrivo in Europa e non nella tua lingua madre, o in una lingua a te già nota come l’inglese?
A quanto pare non avevo scelta. Me lo sono chiesto spesso anch’io:
«Ma perché diavolo hai fatto una scelta così difficile?»
Una vera risposta non l’ho ancora trovata, ma ero uno che aveva lottato per un po’ contro il regime dello scià, poi contro la dittatura della repubblica islamica, e all’improvviso, dopo aver lasciato la patria non ero più nessuno. Avevo bisogno di una dittatura per ritrovare un equilibrio. E la lingua olandese è diventata quella dittatura.
Cosa significa per te, oggi, a trent’anni di distanza scrivere in olandese?
Questa scelta ha provocato un drastico cambiamento in tutti gli aspetti della mia vita. Combattendo per quasi ventisette anni con una lingua così fuori dal comune, mi sono creato, mio malgrado e senza volerlo, un nuovo io. A volte mi paragono a un sacerdote che per ventisette anni ha letto le Sacre Scritture e alla fine è diventato la Scrittura. Lo stesso vale per me, anch’io sono diventato la scrittura.
Scrivendo in olandese hai plasmato una lingua nuova e un nuovo stile di scrittura a cui i lettori olandesi non erano abituati. Per diversi aspetti il tuo olandese non coincide con quello standard, risulta suggestivo grazie all’eco poetica della sintassi e delle scelte lessicali essenziali, della musicalità e del ritmo di una lingua per noi lontana, misteriosa, esotica. Quali sono state a questo riguardo le principali reazioni dei lettori?
È interessante notare come i critici letterari olandesi mi abbiano subito ammirato per la mia lingua, non tanto per le storie che raccontavo. Si sono subito resi conto che la lingua olandese si presentava in un modo completamente diverso, diverso dallo standard. La ragione era che avevo trentatre anni quando ho imparato l’olandese. E avevo nella testa il ritmo dei grandi maestri persiani, nella mia lingua. Avevo lasciato tutto, ma mi ero portato dietro i loro ritmi e i loro suoni.
Molti sono gli scrittori in esilio che hanno scritto e che scrivono nella lingua del paese ospitante, trovi nella loro scrittura delle somiglianze con la tua esperienza?
Senza dubbio quegli scrittori hanno tutti una cosa in comune. Usano la lingua in modo completamente diverso dallo standard. Il loro sguardo sulla lingua è fresco, rigenerante, e siccome nessuno di loro l’ha assunta con il latte materno, scrivono in modo più sobrio e suggestivo. E i lettori sentono che la loro vita dipende dal fatto di scrivere nella nuova lingua.
In virtù dello stile che adotti e dei temi che affronti, i tuoi libri sono un costante dialogo e un ponte tra Occidente e Oriente. Possiamo dire che la letteratura, con libertà tipica dell’immaginazione e la pacatezza della parola, può favorire la conoscenza e un dialogo pacifico tra persone appartenenti a mondi diversi?
Certo che lo possiamo dire, perché è esattamente questo. Prendiamo, ad esempio, il mio romanzo La Casa della Moschea. Il mondo occidentale non sa molto e non ha idea di come sia la vita quotidiana della gente in una società islamica. E con questo romanzo io porto i lettori nel cuore di una casa di musulmani osservanti, che tra quelle mura vivono, amano, fanno l’amore, raccontano storie, e in questo modo si getta automaticamente un ponte tra due mondi.
Nel tuo romanzo, Un pappagallo volò sull’IJssel, i protagonisti sono alcuni immigrati di religione musulmana, tra i primi ad arrivare in Olanda, dove si stabiliscono in alcuni paesini sul fiume IJssel. All’inizio vengono accolti con generosità, curiosità e un forte senso di solidarietà, ma quando le loro tradizioni entrano in conflitto con le usanze olandesi, iniziano i primi screzi: su tutto sembrano però prevalere il confronto e l’integrazione, favorita dal fatto che diversi di loro imparano la lingua olandese e si inseriscono nel mondo lavorativo, mettendo a frutto i loro talenti o realizzando i loro sogni. In base alla tua esperienza, l’apprendimento di una lingua straniera, soprattutto in età adulta, avviene più con lo studio oppure è più significativo imparare una lingua dal vivo, quindi attraverso l’apprendimento non formale?
In base alla mia esperienza, posso dire che un corso ti permette di imparare gli aspetti basilari della lingua, poi tutto il resto devi farlo di tua iniziativa. Frequentare persone, non avere paura degli errori che fai, leggere giornali, libri, guardare la tv, tenere accesa la radio mentre vai in macchina. E se non hai nessuno con cui parlare, puoi parlare alle tue scarpe.
In un’intervista avevi detto che bisogna prima cambiare sé stessi per poter cambiare la società. Come immagini l’Europa del futuro?
Né io, né voi, nessuno di noi può decidere il futuro dell’Europa. Il futuro dell’Europa sarà deciso dalla storia, e in questi anni la storia si sta dando un bel daffare. Che ci piaccia o no, la realtà è questa. Faccio l’esempio dell’Olanda. Cinquant’anni fa l’Olanda era un paese spento, di mangiatori di patate bianchi, ma sta cambiando molto rapidamente per diventare una società come quella newyorchese: un miscuglio di culture. Ad alcuni fa paura, ma la storia e io ne siamo contenti. Diventerà un paese più energico, vitale e colorato e pioverà di meno. Questo esempio vale anche per il resto dell’Europa dei prossimi cento anni, e cento anni non sono niente.
Non è sempre appropriato dire o pensare che alcuni migranti non vogliono integrarsi, forse vogliono sentirsi liberi di vivere nella tradizione anche in Occidente. Sei d’accordo?
Oggi, a causa dei media, “integrazione” è diventata una parolaccia, un obbligo imposto agli immigrati. Chi viene a vivere in un’altra società va sicuramente incontro a dei cambiamenti, ma per alcuni questo richiede più tempo. Non cambiano finché non muoiono. Per altri il cambiamento è più rapido. Ma tra cent’anni saranno tutti olandesi, italiani e parleranno la lingua del loro nuovo paese meglio di tutti.
La propria cultura d’origine è perfetta, è bella, necessaria, e ce l’hai nel sangue, nel cervello, non puoi buttarla alle ortiche o rinnegarla. Ma quando vai a vivere in un altro paese, sotto altre lune, [in un paese] che ha un’altra cultura e un’altra lingua, devi spalancare tutte le finestre di casa tua e tutte le finestre della tua mente per fare entrare i cambiamenti culturali. Devi [osare] fare un salto nel vuoto, altrimenti non c’era bisogno che lasciassi la tua patria, la tua lingua e le tombe dei tuoi antenati.
Entra a far parte del tuo nuovo mondo e così creerai un nuovo «IO». Altrimenti l’Italia o l’Olanda non hanno bisogno di te.
La letteratura è un modo per offrire una chiave di lettura del mondo?
Per quanto mi riguarda, la letteratura apre le porte di tutte le società. Cent’anni di solitudine di Marquez ti fa entrare nel fantastico mondo della Colombia. Con Guerra e Pace di Tolstoj entri nella Russia di quell’epoca. Con I miserabili di Victor Hugo (entri) nella società francese del suo tempo. E con Un pappagallo volò sull’IJssel di Kader Abdolah entri nel mondo degli immigrati.
Qual è il paese in cui i tuoi romanzi riscuotono maggiore interesse di pubblico e di critica?
Ah ah, sono grato a chi mi dà ospitalità, e, visto che le mie intervistatrici sono italiane e la mia traduttrice è la cara Elisabetta, la mia risposta è l’Italia.
(Tradotto dall'olandese da Elisabetta Svaluto Moreolo)
[Flashletter #0.41 | 22 gennaio 2018]