Intervista a Silvia Cosimini, traduttrice dall'islandese

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 20 gennaio 2012

Com’è nato l’interesse per una lingua così lontana come l’islandese?

All’università. È stato un colpo di fulmine, ma non credevo che un amore improvviso riuscisse a evolversi in un rapporto tanto duraturo! Al secondo anno di università ho frequentato un corso di filologia germanica che quell’anno, per puro caso, verteva sull’islandese antico; mi si è aperto davanti un mondo nuovo e sono rimasta folgorata dalla portata della letteratura medievale islandese e dallo stile delle saghe, così ho pensato di proseguire gli studi nell’ambito filologico e mi sono laureata con una tesi sull’islandese antico. Poi sono partita per Reykjavík con una borsa di studio, e mi sono iscritta a un corso triennale di lingua e cultura islandesi, laureandomi nel 1996. È stato faticoso, davvero; l’islandese non è una lingua che mi è risultata subito facile e naturale, eppure vi sono indiscutibilmente legata, per qualche oscuro motivo che non riesco a individuare. Forse è stata solo la voglia di rendere accessibile anche ai lettori italiani l’universo letterario che mi aveva tanto affascinata.

Quest’anno hai vinto il Premio Nazionale per la Traduzione, te lo aspettavi?

Mah… no… o forse un po’ sì! Sapevo che giocando la carta dell’islandese potevo fare leva sulla giuria, che magari ha premiato l’originalità e l’audacia della scelta linguistica più che le effettive doti del traduttore. Sapevo anche che Franco Buffoni, uno dei membri della commissione, è un estimatore della letteratura islandese, per cui a dire il vero sospettavo di poter avere qualche chance. Anzi, se ci sta leggendo, lo ringrazio pubblicamente!

Per tenere viva la conoscenza dell’islandese, ti capita di andare spesso in Islanda?

Sì, ci vado ogni anno, per un mese circa, quando le giornate sono lunghe quasi ventiquattr’ore e ancora non sono arrivate le orde dei turisti; prendo in affitto sempre la stessa casa nel centro di Reykjavík, proprio davanti al lago, e vado tutti i giorni in università a fare un paio d’ore di conversazione con la mia tutor, che durante l’inverno mi tiene da parte ritagli di giornale, articoli, libri, ma anche ricette, il muschio islandese (un ottimo rimedio contro la tosse) e le marmellate di rabarbaro fatte in casa. Vado a trovare degli editori, mi faccio regalare gli ultimi romanzi usciti, esco a spettegolare con i miei autori, vedo gli amici e le amiche, vado a concerti, spettacoli teatrali, cinema, corsi di maglia… È fondamentale! A casa in Italia non posso far altro che ascoltare la radio islandese sul pc mentre lavoro e parlare su skype con gli amici. Se non andassi a Reykjavík ogni anno, mi mancherebbero non solo l’elasticità linguistica, ma anche tutti i riferimenti culturali che stanno alla base del mio lavoro. E poi mi piace costruirmi un rapporto più profondo con gli autori che traduco.

In Italia, dove viene insegnata la lingua islandese e altre lingue scandinave?

La lingua islandese non è insegnata in Italia, se non – mi pare, ma potrei sbagliarmi – all’università la Sapienza di Roma, che mi risulta abbia un corso, o almeno l’avesse fino a un paio di anni fa. Io quest’anno tengo un corso monografico di letteratura islandese a Bologna, ma per il resto, chi vuole imparare la lingua deve accontentarsi dei corsi on-line offerti dall’Islanda, a pagamento. Ci sono alcune università in Italia che hanno ottimi dipartimenti di lingue e letterature scandinave (di solito svedese, norvegese e danese, ma non islandese), per esempio Milano e Firenze.

Sarebbe un ottimo punto di partenza nonché uno strumento di formazione continua se fossero gli editori stessi a offrire dei corsi di lingue scandinave, come sta facendo Iperborea, ad esempio, sia per i neolaureati sia per chi già traduce da queste lingue...

Sicuramente. In realtà, nonostante ci siano diversi islandesi in Italia, non è sempre facile trovare persone qualificate per l’insegnamento. Sarebbe bellissimo, in ogni modo, e anzi – e qui lancio un grido d’allarme – sarebbe davvero il caso di pensare a un dizionario islandese>italiano e viceversa, perché gli strumenti di cui disponiamo al momento sono davvero deficitari! A volte me lo sogno di notte, un bel dizionario ricco, esaustivo, completo e funzionale…

Quali autori hai tradotto finora?

La cosa che più mi piace, lavorando dall’islandese, è poter tradurre autori disparati e completamente diversi l’uno dall’altro, che mi costringono a fare utilissimi esercizi di giocoleria linguistica per trovare la voce adatta a ciascuno di loro. Non mi metto a snocciolarli tutti, ma al primo posto c’è Halldór Laxness, l’unico premio Nobel islandese, un grande della letteratura novecentesca; poi devo citare il mio preferito, Jón Kalman Stefánsson, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2011 e presente al festival Incroci di Civiltà di Venezia. Seguono, a ruota: il giallista di maggiore fama, Arnaldur Indriðason (recentemente l’ho visto indicato anche tra le letture preferite di Camilleri!), e il jolly della letteratura islandese, Hallgrímur Helgason, il poliedrico autore del libro culto 101 Reykjavík e del più recente Toxic. Assolutamente da non perdere è anche Guðrún Eva Mínervudóttir, una grandiosa giovane autrice che nel 2008 è stata ospite del Festivaletteratura, ma che per il resto non ha avuto molta visibilità qui da noi. Ho tradotto, tra gli altri, anche Sjón, Guðbergur Bergsson, Kristín Marja Baldursdóttir, e sto lavorando a un romanzo ‘gotico’ della regina del giallo, Yrsa Sigurðardóttir.

Facendo annualmente il giro degli editori di Reykjavík hai degli autori che ti piacerebbe proporre qui in Italia?

Sì, ci sono diversi autori che spero di poter tradurre in futuro, ma che non sono stati ancora valutati dalle case editrici italiane, come Bragi Ólafsson, uno dei miei preferiti. Anni fa Bragi era il batterista degli Sugarcubes, il gruppo in cui ha esordito Björk, anche se non gli fa piacere che si sottolinei, adesso che è un autore affermato. Bragi ha uno stile che mi piace moltissimo, riesce a costruire tensione sul niente: leggendo i suoi romanzi ti aspetti sempre che capiti qualcosa da un momento all’altro, e poi invece non succede mai nulla. Un altro autore che mi piace molto è Gyrðir Elíasson, che pochi mesi fa ha vinto il premio letterario dei paesi nordici: è un autore delicatissimo, di atmosfere impalpabili e non certo d’azione, e scrive di preferenza racconti, quindi temo che non s’inserisca molto bene nelle tendenze del mercato letterario italiano. Un altro libro che vorrei tanto tradurre è Draumalandið, un saggio di Andri Snær Magnússon, perché è un testo fondamentale per capire gli islandesi e i problemi ecologici che affliggono quest’isola ai margini dell’Europa. Sarebbe un testo utilissimo, anche e soprattutto nell’ottica di un corso universitario.

La lingua italiana è studiata in Islanda e quali sono le novità letterarie italiane che arrivano, tradotte?

Gli islandesi hanno un grande interesse per la lingua italiana, perché è la lingua franca della musica. In Islanda tutti cantano, soprattutto lirica (c’è un tenore islandese ben noto in patria che vive sul Lago di Garda e si è esibito spesso all’Arena di Verona), e i corsi di lingua italiana abbondano ovunque. L’italiano è materia di insegnamento anche in alcune scuole superiori, mi risulta che ci sia pure un buon corso all’università, benché discontinuo; adesso pare che la Juventus abbia acquistato un calciatore islandese quindi di sicuro l’interesse per la lingua salirà ulteriormente! Per contro, è molto strano che la letteratura italiana non sia poi così diffusa: ha molta fortuna il teatro, perché Goldoni, Pirandello e Dario Fo sono gli autori più tradotti, insieme a Geronimo Stilton e a Guareschi. Qualche classico, come Il gattopardo, Cristo si è fermato a Eboli, Lettera a un bambino mai nato, Il nome della rosa, Va’ dove ti porta il cuore, e di recente qualche romanzo di Baricco, Ammanniti, Lucarelli, Paolo Giordano. Il fatto è che gli islandesi conoscono benissimo l’inglese e le altre lingue scandinave, quindi possono leggere i romanzi italiani in altre traduzioni e gli editori non sempre si prendono la briga di metterli in produzione.

In un’isola abitata da trecentomila persone, non c’è il pericolo che l’islandese si estingua?

Anch’io ci penso spesso, ed è un problema molto sentito tra gli islandesi, così gelosi e fieri della loro identità linguistica. Da qualche anno a questa parte, con l’arrivo di molti extracomunitari (che per altro in islandese si chiamano nýbúar, ovvero ‘nuovi residenti’, termine che non ne sottolinea affatto l’estraneità come fa l’italiano), l’islandese si trova a convivere con altre lingue, soprattutto nella capitale; purtroppo è una lingua complessa, che non si impara facilmente per strada e richiede solide conoscenze grammaticali. Una volta sono andata a cena con due amiche in un ristorante indiano del centro, e tra il personale nessuno era in grado di parlare l’islandese, così abbiamo dovuto ordinare in inglese. Ho chiesto loro se non lo trovavano strano: una ha risposto che non le importava molto e che quella era la ‘nuova Islanda’, mentre l’altra ha ammesso in effetti che costituiva un problema, e che i suoi genitori anziani, per esempio, in quella situazione non avrebbero saputo come fare. Uno dei miei autori, Arnaldur Indriðason, prevede che tra un centinaio di anni nessuno parlerà più l’islandese…