Pubblicazione:
11 novembre 2004
Un classico esempio di libro giallo che offre vari livelli di lettura. Questo è innanzitutto un romanzo di Léo Malet con il suo personaggio seriale, Nestor Burma, come protagonista. Vari gli ingredienti su cui si può contare: una trama mozzafiato con più cadaveri (di cui il primo entro la fine del primo capitolo), un investigatore sui generis, poco ligio alle regole, spregiudicato ma idealista, con trascorsi anarchici, incapace di concludere un'indagine senza prendersi almeno una botta in testa, amante delle belle donne e che non sempre si distingue per commenti "politically correct". Il tutto in una Parigi tra gli anni '40 e '50 ritratta nei suoi cambiamenti sociali e raccontata con ironia e affetto (basta pensare che Nestor Burma non lascia mai la capitale, per le ferie si limita a cambiare arrondissement), andando a indagare fin nei vicoli bui, dimenticati o oggi inesistenti. Una Parigi dove gli studenti del Quartiere Latino abitano negli alberghi e le tipografie nel Marais sono ancora in attività, i caffè e i bistrot ospitano scrittori e artisti vari mentre gli Champs Elysées pullulano di gente del cinema. Del resto la serie dei "Misteri di Parigi" in un certo senso è anche una guida della Parigi che non c'è più. Con un giallo per ogni arrondissement, Burma diventa un vero e proprio "Virgilio" nelle atmosfere e negli ambienti della capitale, in un ritratto che non disdegna i toni nostalgici. I "cattivi" da scoprire sono ricettatori, spacciatori di droga, spietati assassini, ma anche padri di famiglia uxoricidi. Prostitute e ladruncoli sono invece quasi sempre dalla parte dei "buoni", meritevoli della nostra comprensione e, a tratti, pietà. Senza esagerare però, perché per quanto Burma ami indagare e comprendere le ragioni che si celano dietro ai gesti anche più crudeli degli esseri umani, niente lo ripugna più del facile sentimentalismo. Ma questa serie per così dire "minore" di uno dei padri fondatori del noir francese è anche altro. Qui infatti Malet si diverte a giocare con il cliché dell'investigatore privato, offrendo al lettore appassionato di gialli la possibilità di un livello di lettura metaletterario dove non mancano, qua e là, vere e proprie dichiarazioni di poetica e rimandi ai colleghi americani. Il tutto con il tono leggero e sempre, talvolta anche forzatamente, sardonico che accompagna Burma in tutte le situazioni, dalla più buffe alle più amare fin a quelle catastrofiche. Personaggio esuberante, chiacchierone (con il lettore), amante della divagazione, della battuta e del gioco di parole, Nestor Burma ci racconta delle sue indagini secondo il suo punto di vista, senza svelarci mai tutto quello che intuisce, quasi fossimo anche noi lettori nella posizione della sua bella segretaria Hélène o dell'amico e commissario di polizia Faroux. Perché sia chiaro che i suoi non sono mai romanzi alla Agata Christie, per intenderci. I delitti da investigare non solo non avvengono in una stanza chiusa, ma tanto meno hanno un numero predefinito di sospetti e possibili colpevoli. Un movente c'è sempre (i serial killer sono lontani anni luce), ma il più delle volte è talmente complicato che lo si può capire solo nell'ultimo capitolo, inevitabilmente rivelatore. Sconsigliato invece fidarsi troppo delle sue "ricapitolazioni" lungo il percorso. Certo, tracce e indizi sono disseminati per tutto il romanzo, per chi li sa individuare, mescolati a false piste, errori di valutazione, "colpevoli" dimenticanze di chi indaga. Un gioco con il lettore che si riflette anche sul piano stilistico, con la sua lingua ridondante, che attinge a piene mani dall'argot, ma anche dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalle metafore ormai talmente abusate da essere diventate "sterili" per riportarle a nuova vita, deviandole, mescolandole e adattandole al contesto. Senza rinunciare a un fiume di citazioni, più o meno esplicite, letterarie, cinematografiche, giornalistiche, "mondane". Se in un romanzo si parla di sarti, tutto il libro sarà attraversato dai continui richiami alla "matassa da sbrogliare", al "filo del discorso", a "gente fatta della stessa stoffa", mentre si accenderanno "le luci della ribalta" per parlare di un'attrice che ormai non si è ridotta che a mera "comparsa" nel proprio ambiente. Non che la cosa salti subito agli occhi o sia fatta in modo esplicito o macchiettistico, anche questo è un sottile gioco che Burma instaura con il lettore che abbia voglia di seguirne la traccia. Un gioco che obbliga il traduttore a una certa libertà, costringendolo a tante rinunce (l'argot è un patrimonio insostituibile), ma anche a rimediare con una certa creatività rispettando la lingua d'arrivo, alla perenne ricerca di un equilibrio tra le varie "forzature".
120, rue de la gare è tutto questo e anche qualcosa di più. In questo caso i confini dell'indagine non si limitano a un quartiere, ma coinvolgono tutto l'esagono, martoriato dall'occupazione nazista. A permettergli di trovare il o i colpevoli sarà proprio il contesto di razionamenti e privazioni in cui si trova la Francia nel 1940. Burma la sta attraversando in treno, diretto a Parigi, insieme a tanti altri ex prigionieri, dopo aver lasciato quel campo tedesco in cui nasce il mistero che troverà soluzione a Parigi, dopo un'indagine a Lione. I co-protagonisti della serie ci sono tutti, da Hélène, all'amico giornalista Marc Covet a Florimond Faroux, che qui ci appare più umano e sfaccettato che mai. Forse perché anche lui, come gli altri, veste panni diversi da quelli abituali: la guerra non lascia mai le cose come stanno. L'atmosfera è amara, torbida (tanto da far sospettare anche delle persone più fidate), melanconica. Sullo sfondo degli omicidi da risolvere, incombe una tragedia ben più grande, palpabile, anche se lontana, e la sensazione che niente sarà mai più come prima. Che quella della guerra sia una ferita destinata a non rimarginarsi mai del tutto, un po' come per il povero Zavatter, aiutante di Burma, che resterà monco per tutta la vita. Non che tutto questo vada a scapito di una trama come sempre scoppiettante, che mette in scena doppiogiochisti, delinquenti "di professione" e insospettabili che si alternano e si incrociano ai soliti ritmi vertiginosi. Solo che, come in tutti gli altri suoi romanzi, Malet non rinuncia a una prerogativa fondamentale del genere: il suo aspetto "sociale".