La forza di un romanzo come In caso di mia morte risiede, oltre che nell'incalzante ritmo narrativo, nella sapienza e controllo che un'autrice di genere navigata come Carlene Thompson riesce a dare alla propria scrittura. Questo romanzo, il quinto della sua prolifica produzione letteraria - dal 1999, anno della sua pubblicazione negli Stati Uniti, sono usciti altri tre romanzi, l'ultimo dei quali, "If She Should Die", nel 2004 - è un ottimo esempio di thriller psicologico, un giallo che rispetta rigorosamente le regole del giallo. La struttura narrativa è rodata e molto solida. La Thompson, infatti, sulla scia di una ormai consolidata tradizione giallistica, pone un omicidio efferato, violento e brutale, calcolato con inumana freddezza, come apertura al suo romanzo, a spalancare di fatto le porte al racconto vero e proprio. Si mette in movimento, così, la narrazione che imbocca due differenti direzioni: la discesa verso un passato volutamente dimenticato e il rincorrersi macabro e inarrestabile degli eventi che si incrociano e si annodano di continuo rivelando di volta in volta verità sopite, sepolte sotto il peso degli anni e del silenzio che i protagonisti di questa storia avevano deciso di imporre a se stessi. La prima vittima è Angela Ricci, un'attrice di successo di quella Broadway tanto lontana dalla vita di una cittadina di provincia come Wheeling, luogo eletto a palcoscenico nella rappresentazione del male. Dietro quel primo delitto, inequivocabilmente legato a un altro terribile evento - la morte, altrettanto macabra, avvenuta tredici anni prima, di un'altra ragazza, una certa Faith Howard - segna indelebilmente la vita di cinque ragazze a quel tempo poco più che adolescenti. Dopo quell'omicidio, infatti, Laurel, Crystal, Denise e Monica, devono affrontare un passato che, con la morte di Angela, torna improvvisamente in superficie e inizia di nuovo a sanguinare. Loro quattro, insieme con Angela e Faith, avevano formato un gruppo votato all'occulto, il "Sei di cuori", i cui riti, il più delle volte innocui, avevano tutto il gusto adolescenziale del proibito e di quella voglia di condivisione esclusiva che da esso deriva. Una notte, però, complici l'alcol e la particolare elettricità che quei giochi macabri donavano loro, qualcosa andò storto. La rievocazione rituale di un'esecuzione consumata qualche secolo prima nella stesso cascinale in cui si erano riunite sfugge loro di mano. Faith, la ragazza designata a recitare in quell'occasione la parte della vittima, muore appesa a un cappio legato a una trave di legno del soffitto dimenandosi nel vuoto mentre le fiamme sotto di lei crescono fino a lambirle il corpo. È quella la notte in cui l'incubo ha inizio. Gli omicidi si susseguono uno dopo l'altro, inarrestabili, stringendo sempre di più la morsa del terrore attorno alle vite dei personaggi. La sapienza narrativa della Thompson consiste quindi nel saper maneggiare e controllare alla perfezione il suo tessuto narrativo puntando a disorientare continuamente il lettore togliendogli la possibilità di azzardare un'ipotesi sull'identità dell'assassino, fino alla fine. Se da un lato ci si trova di fronte a personaggi troppo distanti dalle efferatezze commesse per poter essere iscritti nella lista dei sospetti, dall'altro i candidati più probabili si trovano a essere fin troppo scopertamente implicati per risultare credibili come assassini. E l'assassino non viene rivelato, ma si rivela egli stesso, irrompe sulla scena calando la propria maschera solo quando l'intreccio narrativo gli consente di farlo. La chiave di tutto il romanzo, dunque, è la classica parola d'ordine che un thriller che si rispetti non può permettersi di eludere: suspense. E In caso di mia morte rispetta con fede assoluta quel canone. Carlene Thompson è infatti una scrittrice che punta tutto sull'intreccio e sul suo svolgersi nel tempo della narrazione, a scapito talvolta di uno stile troppo diretto e colloquiale che finisce in alcuni punti per appiattire troppo la sua scrittura. Seguirne lo stile, rimanere fedele al passo narrativo, è stata di fatto la difficoltà principale della mia traduzione che, nonostante ciò, non presentava particolari difficoltà linguistiche, se non i frequenti riferimenti a oggetti di consumo quotidiano o a particolari cibi che facevano riferimento a un pubblico esclusivamente americano. Se a tratti la sintassi ridotta ai minimi termini dell'originale diventava quasi un ostacolo alla fluidità del discorso nella trasposizione italiana, in altri punti, e in particolare in quelli in cui ritmo e tensione crescevano trainandosi a vicenda, rappresentava il miglior veicolo narrativo possibile. La difficoltà risiedeva dunque nel mantenersi meno invadenti e più legati al testo di quanto si era portati a essere, cercando di capire quando un piccolo tradimento portava un'effettiva miglioria al racconto nella versione italiana che evitasse così i zoppicamenti tipici della sintassi anglosassone, e quando invece quello stesso movimento rigido e cadenzato serviva a scandire il tempo necessario alla rappresentazione dell'angoscia e del terrore.