Autore:
Jakob Arjouni
Pubblicazione:
2 marzo 2008
«Kismet! Facciamocene una ragione, non c’è niente da fare!» recita il Duden sotto senso figurato. Propriamente Kismet è il destino che Allah assegna a ognuno, e Kismet è il titolo del romanzo che un caso non ineluttabile, ma imperscrutabile ha affidato a me. Protagonista ne è Kemal Kayankaya, investigatore turco di nome, ma verace francofortese di fatto, lingua tagliente e cuore morbido, che si trova coinvolto suo malgrado in una spietata guerra tra bande nei bassifondi di Francoforte.
Non avevo letto niente di Jakob Arjouni e per prima cosa ho studiato le traduzioni già pubblicate in Italia. In parallelo leggevo gialli, soprattutto Chandler e il suo Marlowe che spesso viene accostato al detective turco-tedesco. Più che leggerlo, ho ascoltato Chandler, perché volevo carpirgli non vocaboli, ma una voce.
In effetti i miei intenti predominanti sono stati da un lato traghettare l’umorismo e i momenti esilaranti di una storia di per sé truculenta, dall’altro restituire la vivezza dei dialoghi e l’incisività della lingua peculiare parlata da ciascuno dei personaggi. La voce di Kayankaya, l’io narrante che permea l’intera opera, è secca e caustica, sa di eterna sigaretta, vodka e caffè lungo. C’è poi la spalla di Kemal, Slibulsky, imprenditore del gelato ed ex spacciatore: impossibile non amare le sue espressioni ispide e sagaci, i fulminanti scambi di battute con l’amico. Tra i dispersi nella battaglia della traduzione devo annoverare le pesanti parlate regionali, il dialetto dell’Assia, il berlinese, che nell’originale danno ai cattivi un’impronta di ferocia, ma anche di involontaria comicità. Mi è andata meglio nel caratterizzare Leila, la ragazzina nata in Bosnia da padre croato e madre serba - vero prodotto del crogiuolo balcanico - e finita a Francoforte in uno squallido centro di accoglienza per stranieri. Mastica ancora male il tedesco e ho dunque infiorettato le sue frasi di solecismi, ripensando ai tipici errori che conosco dal mio insegnamento dell’italiano a stranieri, come l’imperante verbo alla terza persona, le preposizioni senza l’articolo, le geminazioni mancanti… Ma il vero divertimento è stato pennellare un personaggio tanto fragile nell’aspetto quanto rude nell’eloquio capace di lasciare basito persino Kayankaya.
Leggendo Kismet si ride spesso, ma il riso diventa agro ogni volta che Arjouni mostra quanto poco roseo sia l’incontro con lo straniero, a dispetto dei cartelloni della chiesa evangelica appesi al centro di accoglienza «sui quali ragazzi bianchi e di colore saltellavano per strade, scale e prati accompagnati da scritte dai colori squillanti come « Ehi, che figata l’amore per il prossimo tuo!» oppure « Viva l’incontro fra i popoli!». Né sono possibili facili manicheismi: tra gli stranieri ci sono sia vittime che carnefici, tra gli autoctoni scoppiano ostilità tedesco-tedesche, come dimostra la divertente macchietta del verduraio filonazista che accantona la xenofobia soltanto per sfogarsi contro il nuovo straniero, gli abitanti dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, « quelli là dell’est ».
Un recente articolo di Magris notava che la nuova pianta proveniente dall’America venne chiamata granturco perché « fino alla sconfitta definitiva degli Ottomani nel 1683 sotto le mura di Vienna, il “turco” è l’altro, il diverso, il “forestiero”, e pure il nemico, per eccellenza ». Kayankaya è il turco, l’estraneo che in verità è locale al cento per cento, e con il suo emblematico ibridismo sta a ricordarci che l’Altro non è poi così diverso da noi.