Autore:
Hassân Massoudy / editore: Editrice Pisani, 2005
Pubblicazione:
25 febbraio 2006
Se è vero che le religioni monoteiste sono nate nella sabbia del deserto come dice Michel Onfray, è nella culla dello sciismo, alle porte del deserto d'Arabia, nella città santa di Najaf, che nasce Hassan Massoudy, artista di fama internazionale e autore di Così lontano dall'Eufrate, di cui ho curato la traduzione, una toccante autobiografia, in cui s'intrecciano l'intensità del racconto in prima persona, la forza del documento e l'ineluttabilità di una passione.
Discendente dal profeta per parte di madre e da agiati commercianti per parte di padre, Massoudy trascorre un'infanzia serena in una società in cui la rigida devozione religiosa, e i valori della vita associata sono il frutto di antiche tradizioni culturali. A Najaf, la vita scorre lentamente, tormentata dal caldo implacabile e dalle notti fonde, scandita da atti e riti familiari, come le riunioni intorno al focolare, e collettivi come il pellegrinaggio presso il mausoleo dell'imam 'Ali o le vivaci feste religiose, animata dall'agitazione dei suk e degli scambi commerciali, segnata da un'oralità che collega passato e presente, che rinsalda i legami collettivi fatti di solidarietà, saggezza e frugalità.
Attratto fin da bambino dalle maestose calligrafie della moschea di Ali, è in un laboratorio di un rinomato calligrafo che nascerà in lui la passione per la scrittura e l'impulso ineludibile a esercitarsi in quest'arte antica. Dirà: "Quanta influenza ha avuto su di me quell'incontro. L'immobilità del suo corpo, il gesto lento e grazioso, l'ambiente sereno ma vivo, il calamo esperto…". La calligrafia è un'arte sapiente, appannaggio di pochi, presente in stendardi che inneggiano alla libertà, o alla magnificenza divina, ma anche adottata con finalità pratiche, utilitarie.
Terminati gli studi, all'inizio degli anni sessanta, Massoudy si trasferisce a Baghdad città cosmopolita, in cui avverte "una grande energia" e in cui farà l'apprendista calligrafo maturando ideali artistici e sognando l'Europa. L'incontro con il cinema, la letteratura, gli artisti stranieri, i calligrafi di grande esperienza, i pittori iracheni renderanno sempre più forte in lui il desiderio di lasciare il paese. L'Iraq è scosso da forti contrasti civili, e da un susseguirsi di rivolgimenti politici e sociali che porteranno a una feroce dittatura. Vessato e incarcerato a più riprese per uno striscione politico di contestazione, erroneamente attribuitogli, il giovane pittore dopo numerose traversie, lascerà l'Iraq per la Francia nel 1969. Dirà: "I trentaquattro anni vissuti in Francia sono come un'altra vita, la mia nuova vita, così diversa, passata a scoprire questo mondo nuovo, l'Occidente […] io sono un europeo, ma il mio cuore è rivolto ad Oriente". Conseguito a Parigi il diploma di arti plastiche, inizierà una brillante carriera artistica e didattica che lo porterà ad essere un pittore e un calligrafo di grande fama.
Nelle sue opere si congiungono passato e presente, arte orientale e arte occidentale, tradizione e modernità. Egli mantiene il codice antico, la sapiente artigianalità, il segreto degli equilibri, ma epura il tratto, valorizzando il movimento, il peso, la leggerezza delle linee, innovando continuamente il gioco tra il nero e il bianco, il pieno e il vuoto, il concreto e l'astratto. Come dice Michel Tournier : Hassan Massoudy n'est pas le fossile vivant de la vieille calligraphie arabe... C'est un artiste de notre temps. Son art appartient à cette fin de XXème siècle, malgré les racines millénaires qu'il plonge dans la tradition de l'Orient ".
In Così lontano dall'Eufrate Massoudy esordisce chiamando in causa la sua compagna francese Isabelle, a cui ha narrato per frammenti le sue vicende personali iscritte nel cuore di una civiltà ormai scomparsa. "È stata la mia penna" afferma. Collaborazione feconda e di certo esito felice.
Non ha scelto pertanto di raccontarsi nell'idioma dei suoi padri, l'arabo, ma nella sua lingua d'adozione, il francese, la lingua del suo Occidente. Una lingua in cui ha deciso d'immergersi e attraverso la quale rifà quel tragitto a ritroso, con calamo e calamaio di nuova fattura, ma che conserva intatta la qualità di uno spirito plasmato dalla luce incantatoria del deserto e da una tenace mitezza; l'adesione intima, rivelatoria ma rispettosa alle cose narrate; la forza di una cultura fatta di poesia, prescrizione e buonsenso popolari. L'arabo è per lui la lettera dal valore estetico, la scrittura nelle sue implicazioni espressive, i segni dell'imperativo creativo. Non quindi lingua del récit, ma lingua della ricerca artistica. In Francia, l'Oriente gli si è rivelato più chiaramente. Nella nuova lingua il suo Oriente è lì, è come una noria che irriga il suo immaginario, è come il vento del deserto che flette e ritorce una vecchia acacia nel rosso fuoco del tramonto, è nel lento, denso narrare simile all'atto di sgranare un rosario o all'incedere delle processioni, è nello sprizzare delle lettere che egli descrive, frutto di raccoglimento, precisione e tensione creativa. Massoudy raccoglie e ritesse il filo della sua storia procedendo senza compiacimenti, a squarci vividi, a sequenze brevi ed efficaci, descrivendo fatti e persone e ritraendo le cerimonie collettive, e i precisi e intimi riti domestici con equilibrio e intensità.
Un libro ben narrato e ben scritto. Posso dire di non aver incontrato nessun vero intralcio nella lettura né trovato mai ardua la comprensione del testo; si è cercato di attingere l'intimità delle parole, ma anche di leggere la filigrana extralinguistica, le rappresentazioni, le liturgie, le nozioni, che sono sempre i diversi fronti aperti del traduttore. Massoudy non fa mai un uso maldestro o sciatto della lingua ma cauto e ben calibrato; non ha ragioni di impegnarsi in giochi letterari, è un artista visivo che fa di memoria, tecnica impeccabile e sperimentazione il suo fare artistico. Spesso il vero problema, croce e delizia di ogni traduttore, secondo Laura Bocci nel suo Di seconda mano "non è la lingua da cui si traduce […] bensì quella nella quale si traduce: è con essa, infatti, con la lingua madre che s'ingaggiano combattimenti linguistici furiosi". Vertenza continua del traduttore contro il proprio sapere linguistico e non, spossante disputa intellettuale e persino fisica. Si è tormentati da problemi di resa, di scelte lessicali, di ritmo, di contenuti oltre che di parole, per ciò che alla fine diventerà qualcosa di "definitivo, irriproducibile", trasmutato e nuovo, e soprattutto assillati da un timore: che il testo tradotto sia solo un falso sembiante.