Autore:
Yadé Kara / editore: e/o, 2005
Pubblicazione:
27 luglio 2005
Il romanzo della Svolta dal punto di vista turco: così è stato definito Salam Berlino, opera d’esordio di Yadé Kara, scrittrice nata in Turchia nel 1965 e cresciuta nella città del Muro. Quando l’editore me lo ha proposto, ero ancora impegnata a tradurre gli ultimi capitoli della biografia di Christa Wolf, e per l’appunto avevo sotto gli occhi le interviste, le mozioni, gli appelli con cui, di fronte all’esodo che aveva preceduto la riunificazione delle due Germanie, la scrittrice esortò i tedeschi dell’est a restare, a non farsi ingannare dall’illusione di un rapido benessere e a partecipare piuttosto alla creazione di una società democratica e di uno stato tedesco alternativo. Uno di quegli appelli l’avevo sentito anch’io, in televisione, all’indomani del crollo del Muro, e aveva smorzato parecchio la mia euforia, riportandomi subito con i piedi per terra. Insomma, ero ancora immersa in quell’atmosfera, quando ho ricevuto in fotocopia il primo capitolo di Salam Berlino. Che ho letto d’un fiato.
È ancora la sera del 9 novembre 1989, la stessa che Christa Wolf trascorre al cinema col marito ignara di quanto sta accadendo. All’uscita, vede le Trabant incolonnate davanti al confine con Berlino Ovest e pensa: è la fine. In un appartamento turco, invece, un ragazzo di diciannove anni se ne sta sdraiato sul divano e si masturba nascosto sotto i cuscini ricamati dalla madre. Finché, proprio sul più bello, le sue fantasie erotiche vengono scombinate da un’immagine terrificante: i genitori, che se ne stanno seduti immobili in tutta la loro corpulenta mole davanti alla televisione, sono stati fulminati da un infarto. Orgasmo. In realtà, i genitori non sono morti, sono semplicemente rimasti impietriti alla notizia che il Muro è crollato.
Inizia così la storia di Hasan Selim Kahn, turco di origini ma berlinese di nascita, che racconta in prima persona le vicende legate al crollo del Muro e alla riunificazione. Hasan ha vissuto per anni facendo il pendolare tra il Bosforo e la Sprea. Il padre era arrivato a Berlino negli anni della contestazione studentesca per laurearsi in ingegneria insieme a un cugino (sosia perfetto di Brežnev), ma poi entrambi avevano abbandonato l’università per aprire un’agenzia di viaggi. La madre, invece, era tornata a Istanbul con i figli, delusa da una Berlino che non somigliava per nulla alla Parigi che aveva sognato seguendo il marito in occidente.
Nel novembre 1989, Hasan ha appena superato gli esami di maturità alla scuola tedesca di Istanbul ed è ben deciso a varcare la sua linea d’ombra, quella sorta di terra di nessuno che sta fra due fasi della vita, adolescenza e maturità, ma anche fra due identità, due "patrie", in senso proprio e in senso lato. E fra Istanbul, dov’è considerato un "almanci" (l’appellativo con cui i turchi che vivono in Turchia apostrofano i turchi emigrati in Germania), e Berlino, dove i tedeschi lo chiamano "kanako", Hasan sceglie Berlino e la vecchia casa di famiglia a ridosso del Muro, il "suo" Muro ricoperto di graffiti che aveva fatto da sfondo alla sua infanzia e non solo: "Lui, il Muro era sempre lì; e ovviamente era tutto un dipingere e colorare con lo spray - Graffiti Gert era sempre in azione. Ogni volta c’era da scoprire qualcosa di nuovo: frasi geniali, disegni enormi, e tutto questo gratis. Ehi, quella sì che era cultura di strada. E adesso fracassavano tutto, distruggendo una grande opera d’arte.". Ma l’insofferenza di Hasan, assordato dal frastuono dei martelli pneumatici che "a spron battuto" - per usare un’espressione di Grass - cancellano ogni traccia di storia, non ha niente di nostalgico. Il suo disappunto esprime piuttosto un amaro presagio, la fine di una cultura che si manifestava in forme estemporanee ma autentiche a vantaggio di una cultura usa e getta, ipocrita e infarcita di luoghi comuni. Una cultura ben rappresentata da quella piccola galleria di personaggi grotteschi che popolano il mondo del nuovo cinema impegnato e alternativo berlinese e che Yadé Kara passa in rassegna con umorismo spietato. A cominciare dal regista che lancerà Hasan sul grande schermo, facendogli interpretare la parte del turco spacciatore armato di coltello in un film che, a dispetto degli intenti dichiarati, riproduce tutti i cliché sui turchi proponendo la storia trita di una faida familiare.
Il viaggio iniziatico di Hasan finisce così per diventare la scoperta di una Germania riunificata solo in apparenza. Perché il crollo del Muro, in realtà, non fa che portare alla luce le sue divisioni e contraddizioni più profonde. A partire dalle vicende familiari di Hasan, al quale toccherà scoprire che il padre, per anni, ha avuto una doppia vita: un’altra compagna di là dal Muro e un altro figlio. Così, mentre le due Germanie si ricongiungono, la famiglia di Hasan va definitivamente in pezzi. Ma non è tutto. Gli Ossis, i tedeschi dell’est, sono riconoscibili a distanza esattamente come i turchi, per quanto assimilati e pienamente identificati nei valori occidentali. Come Hasan, che non fuma sigarette ma Gitanes, non indossa jeans ma Levi’s, non porta occhiali da sole ma Rayban (e il che viene specificato con un’insistenza, a giudizio di taluni, anche eccessiva). E, quel che è peggio, è che l’intolleranza e la violenza xenofoba si scatenano proprio fra i turchi e gli Ossis nel cieco tripudio amplificato dai mass-media, a loro volta reticenti a denunciare il rovescio della medaglia contro cui finiscono per frantumarsi i sogni di tutti: il sogno socialista e il suo originario ideale libertario, il sogno della riunificazione, il sogno di scoprire le proprie radici, o forse quello ancora più ambizioso di reinventarsi una nuova appartenenza. E in fondo, la violenza sembra essere la risposta più efficace e immediata alla paura e allo spaesamento, laddove l’appartenenza non è più marcata dalla nazionalità, dall’etnia, dal filo spinato, dal vincolo del matrimonio e neppure dai legami di sangue. Alla fine, che il punto di vista sia turco, detto fra noi, non ha proprio nessuna importanza.
La mia personale avventura traduttiva tra le pagine irte di espressioni gergali e battute di un umorismo impietoso, è stata per adesso la più divertente in assoluto. Perché Hasan è un ragazzo curioso, intelligente, ironico, autentico anche quando mostra la sua parte la sua parte fatua; e ha un linguaggio schietto e tagliente che mi ha conquistato subito. Più di una volta, anche rileggendolo, mi sono sorpresa a ridere. La difficoltà maggiore è stata rendere quel parlato tipico della letteratura della migrazione (che è anche migrazione di parole, di significati e significanti), nel caso di Salam Berlino un tedesco contrappuntato non soltanto da parole turche (spesso storpiate dalla pronuncia tedesca o americana) e di espressioni inglesi o tipiche del linguaggio giovanile, ma anche di inflessioni dialettali, a rimarcare come la Germania tornata a essere Una e Indivisa, sia una realtà assolutamente eterogenea, e come il prototipo della metropoli multietnica, crocevia di culture, punto d’incontro del mondo orientale e occidentale, sia di fatto un crogiuolo di provincialismi. Non sempre è stato possibile mantenere in italiano la stessa resa espressiva dell’originale. Un esempio fra i tanti: ogni volta che la famiglia di Hasan andava a trovare un parente a Francoforte, al confine la guardia chiedeva sempre con tono gentile: "Gänsefleisch mo döö Kooferoom övnän" (Può aprire il bagagliaio, per favore?), creando un esilarante gioco di parole perché "Gänsefleisch", contrazione di "Können Sie vielleicht" nel dialetto strascicato della Sassonia, significa letteralmente "carne d’oca". In tedesco fa ridere, in italiano no (anche perché dopo averle tentate di tutte per scovare una resa efficace, ho dovuto gettare la spugna). Ma il dato davvero importante è che l’effetto comico nasce dal momentaneo spiazzamento che il lettore tedesco prova di fronte alla frase: bisogna leggerla ad alta voce per comprendere di cosa si tratta. Di queste piccole distorsioni o contaminazioni, che in certi casi portano alla creazione di nuove polisemie, il romanzo è pieno, e credo che in un certo senso rappresentino la sua vera cifra stilistica, più delle parole in turco, peraltro arciconosciute dai tedeschi e quindi ormai prive di effetti stranianti. Per i lettori italiani, in questi casi ho dovuto ricorrere alle note, anche se nel nostro breve e rapido scambio di e-mail, Yadé Kara mi aveva raccomandato di non creare interruzioni nel ritmo della narrazione e fare in modo che scorresse il più possibile, autorizzando persino il cambiamento del turco "Selam" nell’arabo "Salam", più familiare al lettore italiano, cosa su cui in verità non ero molto d’accordo, soprattutto dopo essermi preoccupata di ricreare in tutto il libro la traslitterazione del turco secondo la riforma ortografica di Atatürk, partendo proprio dalla convinzione che l’identità - perché di questo si parla! - è anche identità linguistica. Un’ultima breve nota in chiusura: la traduzione di questo libro mi ha dato l’opportunità di conoscere Semra, turca nata a Berlino e coetanea di Hasan Selim Kahn, il cui contributo mi è stato prezioso e che ringrazio qui, non avendo potuto farlo sul frontespizio del libro.