Autore:
Guðrún Eva Mínervudóttir / editore: Scritturapura, 2007
Pubblicazione:
19 febbraio 2008
Nelle mie frequentazioni con la letteratura islandese (che, me ne sono resa conto solo pochi giorni fa, hanno una storia ormai ventennale alle spalle) non mi era mai capitato di incontrare un libro così particolare, e sinceramente ancora non ho capito perché mi sia piaciuto così tanto. Quasi tutte le persone a cui, entusiasta, l'ho consigliato, ne hanno affrontato la lettura per poi fermarsi a pagina 126 circa, e da allora mi guardano in modo strano, perplesse; chi l'ha finito, se poi l'ha mai finito, non me ne ha fatto sapere più nulla, forse per non offendermi; i pochi che hanno risposto al mio entusiasmo (prima fra tutti la consulente letteraria della città, che a sua volta l'ha proposto in tutte le salse, gruppi di lettura compresi) fanno parte di una categoria, mi viene da dire, di fuorviati, di guardoni o come minimo di gente dai gusti letterari bizzarri.
Eppure a me è sembrato un libro fuori dall'ordinario, sicuramente se considerato nel suo contesto: in un mondo letterario così 'fattivo', pratico, fatto di cose tangibili e non di scavi psicologici com'è quello islandese, questo romanzo è stato una piacevole, ammirabile sorpresa, e più di una volta ho invidiato bonariamente la piccola autrice, quaranta chili scarsi di sensibilità e bella scrittura, per essere riuscita a soli trent'anni a produrre un libro simile. Yosoy (che nella versione italiana mantiene lo stesso titolo in frontespizio, ma si intitola Il circo dell'arte e del dolore in copertina) per me è una critica spietata all'era dei reality show, un universo assurdo e grottesco dove vengono messe a nudo le deviazioni moderne, e non capisco perché la stampa islandese gli abbia dato così poco rilievo; parlandone con gli addetti ai lavori è emersa una lieve ghettizzazione, una marchiatura come quella che era stata imposta quarant'anni fa a Svava Jakobsdóttir, o ad Ásta Sigurðardóttir, autrici di cui, secondo me, Guðrún Eva ripercorre le tracce, se non altro per il realismo assurdo che tutte condividono. Che la scrittrice abbia alle spalle studi filosofici appare chiaro fin dall'inizio, né sfugge la vena anticonvenzionale di Guðrún Eva, che per l'esergo si fa vanto di non aver scelto le parole di un'autorità, preferendo attingere al patrimonio genialoide di un cantante pop demenziale, Sverrir Stormsker, che paragonerei forse al nostro Elio delle Storie Tese.
Yosoy è un particolarissimo circo permanente allestito in un vecchio lanificio nella Mosfellsbær, appena fuori Reykjavík (la struttura è ancora in uso, si raggiunge un autobus dal centro: ospita dei laboratori artigiani e il lanificio Álafoss, per chi, visitando l'Islanda, fosse interessato a una 'passeggiata letteraria'). Il circo ha conosciuto giorni migliori, ma vi vive e vi si esibisce un gruppo di artisti accomunato dall'arte di sfruttare le possibilità del corpo e della mente umani e di portarli ai limiti del possibile. Gli spettacoli non sono alla portata di tutti: si tengono due volte al mese, il biglietto è estremamente costoso; nessuno, al di fuori degli artisti e della ristretta cerchia di spettatori, sa esattamente cosa avvenga nel lanificio: a Yosoy non si mettono in scena difetti e orrori fisici, quanto un'arte e un'estetica incentrate sul corpo e sul superamento dei suoi limiti, sul dolore fisico e la sua percezione.
L'autrice è una maestra del sospeso, del non detto, del far intuire senza dire. Sicuramente lascia moltissime porte aperte davanti alle quali il lettore si trova spiazzato, senza sapere cosa pensare. Molti mi chiedono plausibilità. Se Ólafur fa ritorno a Reykjavík oppure se rimane a Bruxelles, se Klói torna con Ásta, qual è in realtà lo spettacolo di Sif che tanto turba gli spettatori. In Islanda un giornalista ha intervistato un professore di fisiologia dell'università per chiedergli se è possibile praticare un intervento chirurgico come quello delle ultime pagine del libro. Il medico, che evidentemente la sa lunga, ha risposto nell'articolo che, certo, è ovvio che sia possibile. Ma non è in un anelito tutto islandese alla verosimiglianza, che vanno cercate le risposte a questo libro. In realtà, bisogna non cercarle affatto, le risposte: l'universo che l'autrice crea intorno a Yosoy è uno strano mondo realistico fatto però di assurdo e grottesco, una sorta di science fiction su un piano molto più concreto; le due sfere sono fuse in maniera magistrale e la grande magia del libro credo nasca proprio dal conflitto fra questi mondi che danno vita a qualcosa di perfettamente credibile, un mondo onirico remoto e allo stesso tempo tangibile, assolutamente mai volgare.
Sicuramente è un libro carico di tante cose; troppe, forse, ed è in questo che l'autrice si tradisce rivelando la giovane età; troppi i temi e gli spunti che potevano essere sfruttati altrimenti… be', è ovvio che nemmeno io posso dire troppo, e se il mio sembra un tentativo per incuriosire i lettori e invitarli alla scoperta di questo romanzo, confermo: è proprio questa la mia intenzione.