Autore:
AA. VV. / editore: San Marco dei Giustiniani, 2014
Pubblicazione:
23 ottobre 2015
“Velo” e insieme “specchio” si fa l’anima dell’Amante di fronte allo splendore del volto dell’Amato: “A volte sono velo a volte specchio / del tuo splendore, e trasalisco attonito / dell'immagine tua nel mio pensiero”. Sono, questi, i versi di una poesia di Bidel Delhavī, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, che hanno ispirato il titolo dell’antologia A volte velo e a volte specchio. Liriche persiane (secc. IX-XIX) edita a Genova presso San Marco dei Giustiniani. Il volume, con testo originale a fronte, raccoglie una serie di liriche dei più rappresentativi poeti della tradizione persiana e si avvale della felice collaborazione di due culture, la persiana e l'italiana, vicine nella ricchezza dell'arte poetica e nella speculazione filosofica sulla bellezza e sul linguaggio. Nei versi di Bidel Delhavī un nodo di significati potenti si stringe all’interno delle immagini che esprimono la luce e l’ombra nel dramma del rapporto col trascendente: l’ombra del mistero metafisico e la luce della sua manifestazione mondana. O, nel flusso vicendevole degli estremi e nel continuo scambio delle sorti del dramma, la luce solare del divino e l'ombra del mondo, suo oscuro riflesso.
Tradurre la lirica persiana è impresa rischiosa: che può affrontarsi solo a condizione di un cimento amoroso, sfidando per amore un discorso d’amore lungo l’erto cammino che esso percorre. La poesia persiana è in genere considerata, più di ogni altra, intraducibile, e soprattutto per tale motivo molti dei testi presenti in questa antologia non erano stati finora mai tradotti in una lingua occidentale. Henry Corbin, studioso e traduttore di testi teosofici persiani, proprio a proposito della difficoltà di quelle versioni, rilevava nelle lingue occidentali la mancanza di un lessico e di un sistema di concetti e di immagini adeguati ad esprimere le visioni dello sciismo; rilievo che è estensibile all’insieme delle tradizioni filosofico-religiose dalla cui cultura le poesie qui tradotte sono fortemente segnate.
La traduzione letterale, condotta da Iman Mansub Basiri, è stata un passaggio obbligato per accedere a un primo livello di senso, ma essa sarebbe risultata quasi del tutto incomprensibile per un lettore italiano, proprio a causa della specifica natura di quel linguaggio. In un racconto di Suhrawardī, L’Angelo purpureo, che riempie di oggetti simbolici lo spazio imaginale dell’esperienza mistica, il “viaggio” alla soglia della Luce avviene attraverso le “tenebre”, e nei versi che suggellano lo scritto si libra la figura simbolica del “falco” predatore di conoscenza, davanti al quale “scompare il senso letterale” e “si illumina il senso vero”. Dunque il senso vero non è quello letterale: avvertenza utile per la comprensione del linguaggio lirico persiano, spesso voce delle alte visioni del misticismo sufico.
Occorreva allora trovare delle parole che non tradissero il testo originale e ne trasmettessero i significati conservando nello stesso tempo anche la qualità sensuale propria del linguaggio poetico, in quanto tessuto di ritmi e di accenti sonori. Le strutture stilistiche della poesia persiana, con scansioni, rime, simmetrie estremamente sofisticate, si perdono nella traduzione; però il linguaggio poetico italiano ha i suoi ritmi tradizionali e la sua sintassi retorica: ritrovando ogni tanto qualcosa degli uni e dell’altra, era forse possibile ricordare che la versione stava cercando di ricostruire le ardue parole della poesia.
Il passaggio intermedio alla riscrittura versificata è stato quello del discorso: un dis-currere esplorativo e tortuoso con Iman Mansub Basiri, con cui ho discusso lungamente la sottesa filosofia dei testi, per una migliore loro comprensione. Ogni poesia si è infine assestata in una sua forma; che però, inevitabilmente, conserva solo alcuni barlumi della complessità del testo originario.
Un esempio della difficoltà della traduzione è con i versi di Abu Sa’id, che loda la nerezza dei capelli dell’Amata nel contesto di una lirica d’amore. Ma il termine che sta per nerezza in neopersiano significa anche miscredenza, per cui l’elogio di quei capelli contiene in sé il significato parallelo di un elogio della miscredenza, che il mistico pronuncia elevandosi al di sopra di ogni esteriore professione di fede e delle norme islamiche ortodosse, sentite come un limite nell’intimo dialogo col divino. Se si traduce secondo la lode dei neri capelli, si esclude non tanto il significato proprio, quanto il significato doppio del testo, e, se invece ci si pone ad esplicare la complessità del senso, si perde la sintesi del linguaggio poetico, con le sue figure. La soluzione, parziale, è stata quella di sfaccettare con metafore allusive il linguaggio, parlando non di nerezza, ma di tenebra (la “treccia di tenebra”) e di notte (la “notte dei suoi lunghi capelli”).
I testi qui tradotti non tollererebbero di esser resi in un linguaggio prosastico o ricostruiti secondo un’argomentazione filosofica, anche se ciò potrebbe risultare maggiormente esplicativo. Il fatto che nella versione versificata si noti una maggiore estensione del testo rispetto a quello originario è dovuto appunto a quella sorta di concrezione semantica che caratterizza il linguaggio lirico persiano e alla necessità di scioglierla con delle perifrasi, che provino, però, a mantenere la tenuta di un discorso visionario. Inoltre, la ripetizione di singole parole e di stilemi, la distribuzione dei suoni, le rime, gli intrecci, le geometrie ritmiche fanno parte di un linguaggio di impervio misticismo e insieme di raffinata connotazione formale, che induce variazioni in una certa ripetitività convenzionale delle immagini e di cui occorrerebbe trasmettere almeno quell’aura spesso emergente di formulare sacralità. Si è lasciato, perciò, che i versi italiani, guidati dalla sapienza insita nel linguaggio, cercassero a volte metri e ritmi canonici, sospinti senza sforzo dall’onda del suono e del senso, oppure scansioni ed estensioni ritmate non regolari, sempre seguendo l’energia stessa della lingua italiana. L’insieme dei suoni e dei ritmi, che di volta in volta si è aggregato, è stato, così, più che costruito, ascoltato. Nel suo complesso, infine, l’operazione si è mossa verso una sorta di raffigurazione iconica dell’oggetto verbale originario, come si trattasse di un figurare l’altrui scrittura, raddoppiandone l’artificio.
La rosa di poeti scelti abbraccia l’arco di più di mille anni. È stato possibile seguire un filo millenario per il fatto che esso non si interrompe: la lirica persiana e il suo discorso d’amore rimangono classicamente costanti così a lungo. C’è solo, nei vari tempi, una specie di viraggio dei colori e un accendersi o attenuarsi di alcuni toni (come accade, ad esempio, nel periodo del cosiddetto “stile indiano”), oppure un parziale mutamento di senso di alcuni contenuti, che tuttavia restano, nel loro dirsi, stabili. Nonostante conforti la millenaria continuità delle modulazioni, resta il rammarico che a seguirne le infinite sfumature sia solo, nella versione, inevitabilmente quella di un’unica voce, che ascolta sé stessa: ma nel desiderio di ritrovare tracce di quella luce - la forma degli altissimi misteri - alla quale la poesia persiana stessa, con i suoi preziosi artifici, dichiara di farsi solo oscuro velo. Se al suo insieme si estende ciò che scrive uno dei grandi poeti persiani, Jalāl-Al-dīn Rumī (XIII secolo), quando, interrogandosi sulla natura della propria poesia, avverte: “La poesia non è che nuvola oscura, / e come luna io sto dietro quel velo. / Non chiamarla nuvola oscura / la luna nel cielo luminosa”.