Ho avuto l’indicibile fortuna di tradurre le poesie di Cortázar. Era un libro piuttosto complicato, e io un traduttore alle prime armi. Nessuno che fosse sano di mente avrebbe rischiato commissionandomi un lavoro non certo da esordiente, ma il fatto è che quel pazzo di editore – mi corre l’obbligo di confessarlo – non era (che imbarazzo!) che... io stesso.
Ma prima di rispondere all’invito che mi fa La Nota del Traduttore di parlarvi di come l’ho tradotto, vale la pena dire due parole sul rapporto che intrattenne Cortázar per tutta la vita con la poesia, prima di prendere la decisione di mettere insieme Salvo il crepuscolo.
Con questo esteso libro di poesie un Julio Cortázar che è allo zenit della propria carriera letteraria e ormai al termine della sua vita decide finalmente di ordinare cinquant’anni di produzione in versi. Ciò che ne risulta non è soltanto una scelta delle poesie «salvate», o il suo «testamento spirituale» (anche se uscirà postumo, in effetti, nel 1984). È sicuramente molto di più, e può valere la pena spiegarlo.
L’esordio come autore di racconti (con Bestiario) risale al ’51, quello di romanziere (Il viaggio premio) è del 1960; ma un librino intitolato Presencia e firmato da un certo Julio Denis aveva sigillato il vero esordio, era il 1938, di un Cortázar poco più che ventenne che si celava dietro uno pseudonimo: si trattava di un libro di poesia.
Da allora la poesia non abbandona mai Cortázar. Ma a lungo è relegata, o forse più propriamente protetta, in un ambito soltanto privato. Fu il clamoroso flop di quel volume firmato sotto il nome Julio Denis la causa decisiva, scatenante per il suo disamore nei confronti non tanto dello scrivere poesia (cosa che continuerà sempre a fare) ma del desiderio di pubblicarla.
È in un suo testo degli anni Settanta che Cortázar spiega assai chiaramente cosa siano, per lui, le sue poesie: «Non sono come figli adulterini che riconosci in articulo mortis, solo che non credetti mai abbastanza nella necessità di pubblicarle; sono eccessivamente personali, un erbario per i giorni di pioggia, mi si accumularono nelle tasche del tempo senza però che per questo abbia finito per dimenticarle o per considerarle meno mie rispetto ai miei romanzi e ai miei racconti».
Nel frattempo il Cortázar narratore esplode, è all’apice del suo successo, i suoi libri tradotti in tutto il mondo, ma il mondo lui lo gira ormai soltanto per convegni e dibattiti politici, per sottolineare la tragedia di quelle dittature militari che stanno insanguinando la sua terra, spronare gli scrittori a intervenire.
Tra un dibattito politico e l’altro, gli ultimi sforzi degli ultimi mesi Cortázar li dedica con passione a mettere insieme Salvo il crepuscolo.
In una lettera a Guillermo Schavelzon (un argentino che, esiliato in Messico, stava fondando una casa editrice e gli aveva suggerito il progetto) lo aggiorna sui progressi del lavoro: «Ho già abbastanza organizzato il libro in cui ai versi alterno delle prose (ma non esplicative, non temere!), riferimenti ai poeti che amo, insomma un tentativo di creare qualcosa di gradevole da leggere, senza alcun eccesso di serietà e con ancora meno frivolezza».
E in una lettera dell’81 indirizzata a Gregory Rabassa, che era il suo traduttore americano: «Mi diverto a fare un’antologia a modo mio di molte mie poesie che non ho mai voluto pubblicare, intercalandole con delle prose perché risulti un po’ più divertente».
Si vede che Cortázar si diverte, prima e forse ancor più dei suoi lettori, e per farlo mette in scena due amici, due vecchie conoscenze: i due cronopi Polanco e Calac che erano già apparsi in alcuni sui libri precedenti: chiamati a interagire con l’autore nelle pagine di Salvo il crepuscolo, lo fanno sempre con irriverenza, a volte addirittura dileggiandolo per alcuni suoi versi giovanili: grazie insomma a una sua stessa creazione, Cortázar dribbla il possibile rischio che il lavoro di antologizzazione finisca col creargli un piedistallo. La troppa serietà è per lui il motivo del poco interesse che la poesia riscuote fra i più giovani lettori. Quando si gioca bisogna esser seri, sembra volerci ammonire l’autore: e con questo libro definitivo ci lascia le sue regole del gioco.
Ho lavorato a questa traduzione per circa tre anni della mia vita: una discontinuità disinvolta – gli intervalli tra una sessione e l’altra potevano durare giorni o mesi – ma senza dubbio con una porzione più o meno ridotta del mio cervello occupata pure quando non ero materialmente con il libro aperto o col computer a disposizione. Mi è capitato di trovare il verso, la rima giusta, il gioco di parole girando sinonimi tra i pensieri mentre ero in bici, al supermercato, al ristorante o in metropolitana, leggendo al contrario un’insegna al neon (sì, ho delle abitudini un po’ strane...) e poi ci sono state delle volte in cui nella Pagina della Sfinge di una vecchia Settimana Enigmistica se ne stava, a portata di mano, quella soluzione che mi mancava.
Del resto l’autore avrebbe voluto titolare quest’ultimo suo libro per l’appunto Palabras para el juego, vale a dire «parole per il gioco». «Il gioco cortazariano è un rifugio per sensibilità e immaginazione» – così scriveva Mario Vargas Llosa introducendo le Opere complete del suo vecchio amico Julio Cortázar – «il modo in cui esseri delicati, esseri ingenui trovano riparo contro i rulli compressori sociali».
È con l’intento di restituire quel grande amore per il jeu de mots, per i calembour o per i palindromi (e nel rispetto di metriche e rime, di endecasillabi, di alessandrini, assonanze, novenari, sonetti – o almeno nel cercare di rifarli) che ho deciso di mettermi al lavoro.
Senza ovviamente voler azzardare alcun confronto – se non sul valore dei due diversi testi originari cui ci trovavamo entrambi al cospetto – mi è successo qualcosa di analogo a quanto accadde a Italo Calvino quando lesse Les fleurs bleues di Queneau. Scrive: «Pensai subito: “È intraducibile!”», e spiega che il gusto della lettura non poteva per niente separarsi «dalla preoccupazione editoriale, di prevedere cosa avrebbe reso questo testo in una traduzione dove non solo i giochi di parole sarebbero stati (...) elusi o appiattiti e il tessuto di intenzioni allusioni ammicchi si sarebbe infeltrito, ma anche il piglio ora scoppiettante ora svagato si sarebbe intorpidito. (...) In qualche modo il libro cercava di coinvolgermi nei suoi problemi, mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida, (...) un duello tutto finte e colpi di sorpresa. Fu così che mi decisi a provare.»
E così, mi decisi anch’io a provare. Senza essere poeta o traduttore, e per di più senza essere Calvino.
Come vi dicevo poco più sopra, del libro sono pure l’editore; e se avete un altro po’ di pazienza vi racconto come andò la questione. Comprammo i diritti di traduzione di Salvo il crepuscolo di Cortázar credo ormai una decina di anni fa. Bussammo a più porte di traduttori senza trovare chi fosse disposto a dedicare il tempo necessario a un libro misto di prose e poesie, con versi liberi o in metrica e rima, perfino con tanghi da musicare, e di epoche, temi e stili diversi; come se tutto ciò poi non bastasse si trattava di 400 pagine...)
Intanto firmavamo a spron battuto altri contratti per altri suoi libri cui abbiamo ritenuto necessario offrire una corsia preferenziale per un motivo di opportunità o per celebrare un anniversario o perché già c’era una traduzione italiana pronta da pubblicare (o forse non riuscendo ad accasare questo libro alla sua voce italiana). Un giorno del 2019, in una riunione di redazione in cui si parlava per l’ennesima volta di Salvo il crepuscolo e quel problema a cui non si trovava soluzione, qualcuno disse: «Mi sembra evidente che ci sia solo una cosa da fare: Marco, dai, mettiti l’anima in pace, questo libro dovrai tradurlo tu!»
L’idea di improvvisarmi traduttore non mi aveva mai neanche sfiorato. Risposi: «Non se ne parla nemmeno!» Ma poi il tarlo cominciò a lavorare e man mano che passavano i giorni mi girava sempre più nella testa.
Decidemmo di fare un tentativo: avrei tradotto cinque o sei poesie da sottoporre alla casa editrice, a cui estorsi una promessa solenne: «se ci sarà anche il minimo dubbio di rischiare una figura di merda, proteggiamo le finanze e l’onore: e cercheremo un altro traduttore».
Torno a casa e apro sul computer un nuovo documento a cui do il nome di «Me and Julio down by the keyboard». Quell’estate tradussi qualche verso che più tardi mi sarebbe tornato con alcune correzioni di errori e un post-it con su scritta questa nota: «Forza, è l’ora di metterti al lavoro!»
L’autore messicano Pérez Gay, che era allora correttore di bozze alle prime armi di Nueva Imagen, la casa editrice di questo libro, ricorda che quando fu pubblicato «quel libro di poesia, gioco e amore, Cortázar venne un giorno in redazione e mi disse: “Quando ci nasce un figlio, l’ostetrico va sempre ringraziato per averlo fatto venire al mondo. Perciò sono venuto a ringraziarti”. Prima che se ne andasse, mi affrettai a dirgli che purtroppo avevo scorto nel libro appena uscito tre refusi (...) Cortázar mi rispose che “un neonato sarebbe disumano senza nei”».
A distanza di quasi quarant’anni, quel bambino voluto da Cortázar gode come è facile immaginare di sana e robusta costituzione.
Mi assumo la responsabilità di ciascun neo di questa traduzione.
Ho potuto passare la gran parte del tempo dedicato a questo libro a Capranica, città della Tuscia, in una casa dove la leggenda, e un assai scaltro agente immobiliare, tramandano che Francesco Petrarca abbia vissuto e scritto dei sonetti (incluso uno tra i miei preferiti, ovvero il numero 49, quello nel quale il poeta toscano si appella all’«ingrata lingua» italiana, che al cospetto della sua amata Laura gli porge solo un vacuo balbettio, proprio come a me davanti a Cortázar), e aver portato avanti il mio lavoro accompagnandolo col Canzoniere ha generato come un controcanto interiore che mi ha consentito di scivolare sopra i suoi sonetti come con delle morbide pattine su di un corridoio appena incerato.
Che il mio passaggio abbia poi lasciato inalterato lo strato di cera o se abbia prodotto effetti nefasti paragonabili a quello di Attila, ah be’ questo è tutto un altro discorso.
È stato meraviglioso abitare per un po’ nella testa di Cortázar ve lo consiglio, è il posto più incredibile dove si possa passare del tempo: è Disneyland, un angolo di strada, il Louvre, un tramonto, un bar di paese, quella casa che forse non esiste ma che ci torna in un sogno ogni mese, uno sgabuzzino disordinato, un festival, un circo, un dizionario, sette ciliegie, un tango disperato, le tende blu di un treno regionale, il giardino dei mostri di Bomarzo, il museo dellecose da inventare, un sorriso, la mappa del tesoro, popcorn, il mercatino dell’usato, quella scatola con le vecchie foto, un album ancora da colorare, un film, il cassetto delle posate.
Tre anni mi ci sono trasferito e ci sono stato bene ogni giorno. E questa mia imperfetta traduzione non è proprio come stare in quel posto, ma la cartolina che vi ho mandato da un’indimenticabile vacanza.