Autore:
Costantino Kavafis / editore: Baldini Castoldi Dalai, 2007
Pubblicazione:
26 luglio 2007
Il mio primo incontro con l'opera di Costantino Kavafis è avvenuto nel 1996 ed è stato 'un amore a prima lettura'. Nel decennio intercorso tra quel primo incontro e questa edizione curata per Baldini Castoldi Dalai nel 2006, si sono susseguite una tesi di laurea sulle traduzioni inglesi dell'opera kavafiana e la traduzione di un'antologia di 135 poesie del poeta alessandrino commissionatami dal Ministero Greco dell'Istruzione.
Quella con Kavafis è dunque una 'relazione' che dura da parecchi anni.
Nella mia esperienza, la relazione che lega un traduttore al suo autore è infatti paragonabile ad una storia d'amore. L'incontro è quasi sempre un colpo di fulmine, una passione incondizionata che ti fa dire "l'ho trovato, ho trovato il mio autore". Poi però bisogna passare dall'infatuazione iniziale alla relazione vera e propria: dalla lettura si passa quindi alla traduzione. E qui le cose si complicano, perché l'entusiasmo e la passione iniziali non sono più sufficienti: l'ingrediente essenziale per una buona traduzione (come per una buona relazione amorosa) è il rispetto dell'altro e, in questo caso, il rispetto del testo originale. Ma il rispetto non deve mai diventare soggezione e il traduttore deve riuscire a trovare la sua voce pur nel rispetto dell'intenzione dell'autore.
Quando poi la traduzione finisce (così come quando finisce un amore) e prima di poter trovare un nuovo autore da tradurre, il traduttore deve in qualche modo dimenticare quel testo così tanto amato e prendere le distanze dall'autore con cui ha condiviso gioie, amarezze e dispiaceri. Solo così sarà pronto per un nuovo innamoramento.
Problemi e sfide - Io ho scelto di tradurre Kavafis in versi liberi e senza rispettare gli eventuali, e peraltro sporadici, schemi di rime: scelta questa che coincide con lo stile maturo del poeta che, dopo una prima fase in cui scriveva poesie più tradizionali caratterizzate da uno schema rigido di rime, passa molto presto ad un uso più libero e sporadico della rima. Ciononostante, e proprio grazie a questa libertà, laddove la rima non era mero ornamento esteriore ma parte integrante del contenuto semantico, ho cercato di renderla nel modo più fedele possibile. Vorrei ricordare, tuttavia, che a volte la fedeltà al testo originale si ottiene paradossalmente proprio mediante un tradimento. Un esempio pratico si può vedere nella poesia Giorni del 1909, '10 e '11 in cui si narra di un giovane apprendista di un fabbro, figlio di un marinaio indigente, che lavora tutta la settimana in attesa di potersi comprare una bella cravatta o una camicia da poter indossare la domenica. La poesia è priva di uno schema di rime ma nella seconda strofa, e soltanto nella seconda strofa, Kavafis insiste sulla rima in -ì, una rima molto banale in greco, per sottolineare con affetto e simpatia la semplicità e lo squallore, quasi, di una vita modesta. A differenza di altre poesie, quindi, qui era importante riuscire a rendere questa rima perché essenziale per trasmettere un'atmosfera. Ovviamente una rima in -ì era improponibile in italiano e, in ogni caso, non avrebbe avuto lo stesso effetto. La mia soluzione è stata quella di inventare una rima con la parola cosa (costosa, festosa) che in italiano è certamente una rima banale e quindi in grado di rendere l'intenzione dell'autore. Si tratta quindi di un tradimento che in qualche modo mi ha permesso di rimanere fedele all'originale. Ovviamente quando si fanno questo tipo di operazioni c'è sempre un prezzo da pagare a livello semantico: un bravo traduttore deve fare in modo che il prezzo non sia troppo alto. Nell'esempio in questione ho dovuto sacrificare la parola kyriakì che in greco vuol dire 'domenica' e che io, per ottenere la rima, ho tradotto con 'giornata festosa'. Ho ritenuto tuttavia che la perdita non fosse eccessiva dal momento che con la parola 'domenica' l'autore intendeva una 'giornata non lavorativa', la 'giornata festiva', che nella mia traduzione diventa appunto 'festosa'.
Uno degli aspetti dell'opera kavafiana più difficile da rendere in traduzione è la ricchezza linguistica. La lingua poetica di Kavafis è un amalgama di lingua colta e di lingua popolare, di lingua antica e di lingua moderna. Il poeta mescola e contrappone i vari registri linguistici per ottenere determinati effetti stilistici e retorici. Effetti che il traduttore deve cercare di rendere con soluzioni alternative proprie della lingua d'arrivo. Devo dire che traducendo Kavafis avevo spesso la sensazione frustrante che la lingua italiana fosse insufficiente a rendere una lingua come quella greca con una storia e una tradizione ben più antica e autorevole della nostra. Tuttavia, tutte quelle volte in cui riuscivo a trovare delle soluzioni adeguate mi riconciliavo con la mia lingua madre. Un esempio interessante si trova nella poesia Compreso no in cui Kavafis fa la seguente citazione dal greco classico: "Anègnon, ègnon, katègnon" che letteralmente vuol dire "Ho saputo, ho capito, ho condannato". Tuttavia i tre verbi del testo originale hanno tutti la stessa radice e la differenza semantica è determinata dalla presenza o assenza di diversi prefissi verbali (anà, katà,). Era importante quindi riuscire a trovare anche in italiano tre verbi che avessero forma simile ma significato diverso. Io ho tradotto "Ho appreso, ho compreso, ho ripreso": questa soluzione ricalca esattamente il testo originale dal punto di vista formale. E sebbene presenti una perdita semantica (il verbo 'riprendere', infatti, è più debole del verbo 'condannare'), ho ritenuto che la perdita di senso non fosse un prezzo eccessivo per riuscire a rendere in italiano il gioco di parole del testo greco.