È già da un po’ che quando sono in stazione sento dire, invece di il treno non effettua fermate intermedie, il treno non fa fermate intermedie. Ecco, io quando sento questo fa ci resto male, mi dispiaccio. Anche il suono è brutto: fa-fermate. Non succede sempre, diciamo l’ottanta per cento delle volte. Come se le Ferrovie dello Stato stessero aggiornando il loro vocabolario e avessero stabilito che effettuare suona desueto e va gradualmente abbandonato. Perché? Chi lo decide? Era così bello, così preciso, burocratico, perfetto per essere pronunciato all’altoparlante di una stazione, aggirava quella sgradevole allitterazione fa-fe e ritmava la frase con le sue doppie consonanti, si prendeva il suo spazio, si dava importanza. Invece fare è generico, non è netto, non ha peso, non scandisce nulla, anzi, sembra quasi una sbavatura, un errore, buttato lì nel mezzo della frase, nella terza singolare poi, così corto e secondario: fa.
Sembra una stupidaggine, ma ci penso sul serio, e quando traduco e devo scegliere tra due verbi e sono indecisa, penso alla differenza che corre tra fare e effettuare negli annunci delle stazioni, e penso che una delle mie responsabilità di traduttrice è quella di non lasciarmi andare alla facilità di fare (a meno che, ovviamente, l’autore non stia ricercando un linguaggio piatto e generico e bla bla bla).
Perché se è vero che tradurre fondamentalmente è scegliere delle parole, e scegliere delle combinazioni di parole possibili, allora diventa importantissimo stabilire il criterio in base al quale avviene la scelta, perchè questo criterio informerà tutta la traduzione, le darà un colore, una sfumatura generale. La cosa mi è diventata particolarmente chiara quando ho tradotto Amalgamation Polka, geniale romanzo di Stephen Wright sulla Guerra Civile americana costruito a strati, dei quali il più profondo e invisibile è una ricostruzione curatissima delle tappe iniziali della storia del razzismo americano, e quello più in superficie racconta il viaggio allucinato del sedicenne Liberty Fish attraverso gli Stati Uniti di metà Ottocento, quelli dei fenomeni da baraccone e dei battelli trainati dai muli, il tutto in una lingua lirica e intensa e sintatticamente acrobatica, con singoli periodi che a volte superano la lunghezza di una pagina. In Amalgamation Polka la scelta del colore generale da dare alla traduzione andava fatta per forza, e il criterio è stato quello dell’espressività, cercare sempre il termine più evocativo per suono e immagini.
La scelta di una parola, in particolare, è stata importante, proprio all’inizio del libro, nella seconda frase: la prima è semplice, lineare: The bearded ladies were dancing in the mud. "Le donne barbute ballavano nel fango". Ma poi: Outsized country feet that just wouldn’t keep still…
Outsized: definizione del Webster’s unusually large or heavy, "insolitamente grandi", potevo tradurre con smisurati, enormi, ecc., ma sproporzionati mi piaceva perché anche se non era la traduzione esatta aggiungeva l’elemento della disarmonia, di qualcosa che non rientra nell’ambito del naturale (e più avanti si capisce che si parla di donne con attributi sessuali maschili) e poi viene country, qui come aggettivo: belonging or appropriate to rural regions, suitable to or suggestive of the country rather than the city. Una parola così semplice che in traduzione, accanto a feet, era tutt’altro che scontata. E potevo tradurlo in tanti modi: piedi contadini, campagnoli, rustici, agresti, ecc., ecc., ma suonavano tutti male, limitati, e nessuno era abbastanza forte, nessuno aveva il peso necessario a zavorrare l’incipit di un prologo potentissimo che tutti gli articoli della stampa americana avevano citato per la sua eccezionale intensità. E fra le tante associazioni possibili con l’idea di campagna e del mondo contadino mi veniva in mente la parola cafoni, i piedi cafoni. Ma si può dire, i piedi cafoni? Non proprio, però mi colpiva, per come suona, per le immagini che evoca, di terra, di sporco, e disperazione e ignoranza, tutti elementi che fanno parte dell’atmosfera generale del libro; poi c’era il fatto che è un termine assolutamente italiano nel suo significato storico di contadini del sud, e in questo senso a maggior ragione era improprio, come traduzione. E ho pensato: la parola perfetta non esiste, è un miraggio, però esiste la parola potente, che in una certa frase, in un certo contesto, rimbomba. E secondo me qui “cafoni”, accostato a piedi, in questo contesto, è una parola potente, perché amplifica l’atmosfera di tutto il resto e perché ha un peso, forse accentuato proprio dal fatto che è vagamente sbagliato e molto italiano. E così l’ho scelto, e mi convince ancora, in tutta la sua imperfezione: Le donne barbute ballavano nel fango. I piedi sproporzionati, cafoni, che non riuscivano a star fermi, che saltellavano e piroettavano lungo quel tratto scivoloso di strada allagata. Una melma gialla incollata all’orlo del vestito, alle braccia macchiate dal sole, alle guance villose, raggrumata in grosse monete terrose sopra le gale ricamate del petto, come medaglie di eroi appuntate malamente. Cadeva una pioggia fredda e insistente sulle colline sperdute, sui campi ancora fumanti, sugli alberi scabri, deformi, dove la luce – vaga e incerta – si accaniva per procurare al giorno la qualità granulosa di un dagherrotipo appannato. E al centro di questa immobilità bagnata, le donne, sguaiate, irrequiete, senza origine né spiegazione, forse scappate da un circo ambulante, abbandonate lì per dimenticanza o per inganno o semplicemente per ripicca, la conclusione improvvisata di qualche triste storia di offese o tradimenti, brocche di porcellana piene di sidro che passavano liberamente di mano in mano, l’eco del loro canto un risuonare aspro per la campagna desolata.