Non è stato molto difficile tradurre Cassandra. La storia si svolge all’inizio degli anni ’60, in una calda estate americana. A parlare è una studentessa di letteratura di Berkeley, brillante, ironica, disperata – e con un ego grosso come una casa. All’inizio mi chiedevo se sarei riuscito a rendere l’immediatezza e le contraddizioni di una prima persona così “problematica”: poi, come succede con i bei romanzi, ha prevalso l’immedesimazione. Ho cominciato a pensare come la protagonista, a guardare il mondo con i suoi occhi e a descriverlo con le sue parole: e la prima scelta che ho fatto è stata quella di tradurre il simple past con il passato prossimo - anziché con il passato remoto. Era una decisione azzardata, ma non proprio una forzatura. Baker non dà elementi precisi per capire quanto tempo sia passato tra gli eventi vissuti da Cassandra e la sua decisione di raccontarli: ma il modo in cui vengono rievocati lascia intuire che non si tratta di un tempo molto lontano. E soprattutto, il passato prossimo mi permetteva di restituire in modo più diretto e meno “letterario” i turbamenti della protagonista – che chiede continuamente la complicità del lettore, alternando puerilità e malizia, cinismo e fragilità.
Quella di Cassandra, però, non è l’unica voce narrante. Accanto a lei c’è anche sua sorella Judith. Questo perché Cassandra at the wedding trae ispirazione dalle vicende personali di Dorothy Baker, che lo scrisse pochi anni prima di morire, quand’era già una scrittrice affermata e aveva un marito e due figlie: due gemelle, come le protagoniste del libro. Nel romanzo, la madre di Cassandra e Judith è morta da poco - di cancro, come la Baker – e la prima torna in famiglia per assistere al matrimonio della seconda, decisa a boicottarlo. Quello che più mi ha colpito, al di là dei rimandi autobiografici, è la “parzialità” dell’autrice. Anche se la storia è raccontata in prima persona dalle due sorelle, è Cassandra che dà il titolo al romanzo, ed è lei che lo apre e lo chiude. Anche dal punto di vista della lingua, la sua voce è più “speciale” di quella di Judith. Essendo figlie di due intellettuali (un ex professore universitario e una scrittrice di successo) entrambe parlano un americano “alto”: ma mentre Judith è più diretta e sbrigativa – gli americani direbbero “matter of fact” – Cassandra si compiace della sua proprietà di linguaggio, giocando con le parole e con le loro sfumature e utilizzandole per mentire o ferire. D’altra parte, però, è anche particolarmente sensibile al loro potere. C’è una scena molto emblematica in questo senso. Poco prima dell’arrivo del suo “promesso sposo”, Judith rifiuta di farsi accompagnare in aeroporto da Cassandra. Quando quest’ultima le domanda perché abbia cambiato idea, risponde che la sera prima gliel’aveva concesso solo per non creare altri “turbamenti”. Questa strana parola non sfugge a Cassandra: “Ora parli proprio come nonna”, osserva. “E come vuoi che li chiami?”, replica Judith: “Disturbi?”. Per Cassandra è una pugnalata al cuore: “Ho sentito un coltello che mi trafiggeva, e poi rigirava la lama. Per un momento si è fermato tutto. Poi mi sono girata e sono rimasta stesa e ho sentito martellare dietro le orecchie, e la testa che mi girava e tutta l’amarezza che sgorgava fuori dal mio pozzo di amarezza personale, e ho lasciato che sgorgasse. Credo di essermi sentita addirittura sollevata, perché ormai non mi poteva succedere niente di peggio.”
Cassandra ha appena rivelato a Judith di essere in cura da un’analista, proprio per elaborare la separazione da lei: e sentirsi dare della “disturbata” dalla sorella è la cosa più terribile che le possa accadere. Di lì a poco, infatti, tenterà il suicidio.
Quando si dice la forza delle parole... Del resto, come abbiamo detto, Cassandra è una ragazza molto problematica. È la più fragile, la più irrisolta delle due sorelle, e dunque ha più bisogno di cure. E l’attenzione particolare che le viene concessa risulta comprensibile proprio pensando a Baker come madre, prima che come scrittrice: sebbene il lettore sia chiamato a simpatizzare anche con Judith – costretta a farsi carico della “follia” di Cassandra – è proprio in questa ragazza tutta sbagliata, che fatica ad accettare la realtà e ad amare in modo “normale”, che risulta più facile immedesimarsi. Con tutta la parzialità e l’ingiustizia che questo comporta.