Esistono molte traduzioni italiane di Jane Eyre di Charlotte Brontë. Tra le più datate, quelle di L. Kanizsa Jacchia, Roma 1946; di G. Pozzo Galeazzi, Milano 1951; di C. Siniscalchi, Milano 1968; di C.G. Cecioni, Firenze 1967; di P. Virgili, Bologna 1968. Tra le più recenti quelle di U. Dèttore del 1995 per Garzanti; di L. Spaventa Filippi del 1995 per la Newton&Compton editori, con l’introduzione di G. Lombardo; di L. Reali, con l’introduzione di F. Buffoni, del 2004 per gli Oscar Mondadori; di L. Alberti del 2008 per Einaudi; di F. Belli del 2011 per Dalai Editore.
Nel 2014, oltre alla traduzione da me curata per la collana Universale Economica Feltrinelli, ha visto la luce anche quella di Monica Pareschi, per Neri Pozza.
La presente è una nota del traduttore-sineddoche, in quanto prende in esame alcune pagine del romanzo – quattro, per la precisione – e i problemi traduttivi a queste connessi per parlare del tutto. Le pagine in questione appartengono al dodicesimo capitolo del romanzo della Brontë. Capitolo nel quale Jane Eyre, ormai diciottenne, si trova già a Thornfield (il suo trasferimento dalla scuola di Lowood e il suo arrivo in questa tenuta della campagna inglese sono stati raccontati nell’undicesimo capitolo) ed è l’istitutrice di Adèle, bambina francese di sette anni. Nella parte tradotta, Jane è alle prese con una lunga passeggiata fino a Hay, villaggio nelle vicinanze di Thornfield, col pretesto di imbucare una lettera per Mrs Fairfax, la governante. Lungo il sentiero farà l’Incontro: conoscerà (anche se non ne sarà subito consapevole) il padrone di Thornfield e suo datore di lavoro, fino a quel momento mai incontrato, il master Edward Fairfax Rochester. L’episodio rappresenta uno snodo fondamentale del romanzo, poiché segnerà il personale ‘battesimo’ d’amore di Jane e le cambierà la vita.
Queste quattro pagine di romanzo contengono, in compendio, tutti i registri narrativi della Brontë: momenti più descrittivi, squisitamente paesaggistici, si alternano a momenti più introspettivi e ad altri dominati dai dialoghi.
October, November, December passed away: siamo in un pomeriggio di gennaio e Jane decide di uscire a camminare. In questa scena, ancora ‘girata’ in un interno – siamo nella biblioteca e nel salottino di Mrs Fairfax –, l’elemento umano è predominante. A occupare la scena, in un’ambientazione domestica riscaldata dal calore del fuoco di un caminetto e confortata da piacevoli letture di fiabe, sono presenze tutte femminili: Jane Eyre, Adèle, Mrs Fairfax. Il linguaggio che la Brontë utilizza è ancora quello della quotidianità, familiare e rassicurante: il lessico delle piccole cose. A preparare il rapido cambio di scena, che presto diventerà esclusivamente dominata dalla natura, sono le coppie, quasi ossimoriche, di fine, calm/very cold e pleasant/winter, che aprono a una prima irruzione della natura, mentre tutto si svolge ancora nel tiepido calore delle mura domestiche.
Nel secondo paragrafo troviamo Jane ormai in strada. Il passaggio dall’elemento umano all’elemento naturale è repentino, immediato. The ground was hard, “il terreno era duro”. La protagonista del narrato, d’un tratto, non è più Jane, presenza tutta umana veicolata dalla prima persona del verbo, ma la natura, di cui Jane entra a far parte in qualità di creatura, una delle tante. Si tratta di una natura dal carattere spiccatamente romantico (approaching dimness, low-gliding and pale-beaming sun, solitude, leafless repose ecc.) che richiama le tele di Friedrich o di Constable. La traduzione cerca il più possibile, in questa porzione di testo, di lasciare al paesaggio quel ruolo di protagonista che la Brontë sembra attribuirgli, rispettando l’intento evocativo delle immagini e il ruolo importantissimo della componente cromatica. Quello che l’autrice racconta è importante, ma fondamentale è il modo in cui lo racconta. La dominante del testo, qui, sembra infatti risiedere più nello stile che nel contenuto. Ed esattamente nel gusto tutto romantico della Natura, in quanto presenza sublime, potente, misteriosa, oscura e al tempo stesso luminosissima di fronte all’uomo, che al suo cospetto si fa piccolo, piccolissimo, quasi scompare.
L’ambientazione crepuscolare (approaching dimness) è dominata dal rosso: rosse come coralli sono le bacche dei biancospini e delle rose canine, rosso vermiglio è il sole che sta tramontando, rossastre sono le foglie a cui vengono paragonati degli uccellini. Dei colori, in tutta la narrazione, prevale più il valore simbolico, che la cifra descrittiva: il rosso, qualità del crepuscolo, è il colore dell’orizzonte occidentale, mentre le tinte dell’oriente risultano lunari, fredde, argentee.
Infatti, quando Jane rivolge il suo sguardo a est, anche il lessico cambia. Introdotto da termini come cold, froze, ice, brooklet, il paesaggio si fa liquido. Il sole, elemento maschile, è tramontato. Ora è la luna, il femminile, che sorge (moon, pale as a cloud, blue). Di questo paesaggio Jane non è semplice spettatrice, ma è parte integrante, quasi per principio omeopatico: gli elementi della natura sono gli stessi di cui è composta Jane, creatura lunare, liquida, cristallina. La ragazza è intimamente conscia di questa affinità e, all’improvviso, la natura le si svela: sembrano parlarle i fiumi, i torrenti, i ruscelli, con voce sussurrata, bisbigliata. Poiché anche qui la dominante risiede, ancora una volta, sul piano espressivo, la traduzione cerca di rendere questa ‘liquidità’ attraverso l’allitterazione delle sibilanti ‘s’ e ‘sc’ (sorgeva, luminosa, nascosta, esalava, silenzio assoluto, riusciva persino, scorrere, sommesso, ruscelli, sussurri) e attraverso la scelta di parole ad alta densità iconica. Anche la punteggiatura ha un ruolo decisivo nella resa di un periodo caratterizzato da tale fluidità. In questo caso, il ritmo viene dato più da virgole, punti e virgola e due punti (pause più dolci), che dai punti, dalle parentesi o dai dash (pause più forti, più brusche). Le pause nella lettura servono a dare alla voce del testo la giusta modulazione.
Questa prima parte del testo tradotto, più descrittiva, consente inoltre di individuare alcune parole chiave che rimandano a certe aree semantiche ed espressive del romanzo, tra cui il termine moon che ricorre 76 volte nel romanzo, gli aggettivi pale, 64 volte, e dark, 103.
Fin qui, dunque, nessuna presenza umana né animale a parte Jane, che sembra però accolta, assorbita, quasi ‘sciolta’ nella natura, per niente estranea. Fino a che a rude noise broke on these fine ripplings and whisperings: un “pestare di zoccoli e un fragore metallico” all’improvviso spezzano il “morbido fluire delle onde”. E la natura, come in un quadro in cui “la massa compatta di una roccia o i tronchi ruvidi di una grossa quercia, disegnati in primo piano e con tratto scuro e marcato, eclissano l’eterea distanza di colline azzurre, orizzonti assolati, nubi screziate”, passa in secondo piano, perché ora, a fare da protagonista, subentra l’umano. Si è cercato di rendere questa irruzione, violenta e improvvisa, attraverso parole dal suono duro, metallico (spezzò, pestare, zoccoli, compatta, roccia, tronchi), laddove anche nel testo inglese compaiono termini con suoni di questo genere (tramp, tramp, metallic clatter, mass, crag, rough, oak, dark, strong). Utilizzando, laddove l’italiano non permetteva diversamente, la “teoria della compensazione”, secondo la quale quando, in traduzione, si toglie da una parte allora si può aggiungere dall’altra.
Ezra Pound afferma che in un testo, come in una ricetta, sono presenti in quantità di volta in volta diverse, tre elementi: la melopea, la logopea, la fanopea. La maggiore quantità dell’una o dell’altra ci rivelano che tipo di testo abbiamo davanti: la scrittura della melopea è quella dove prevale l’aspetto fonico, la scrittura della logopea è quella dove prevale l’aspetto del ragionamento, del logos, la scrittura della fanopea è una scrittura della manifestazione, della visione. Fino a questo punto del testo, il narrare della Brontë presentava, in dosi più abbondanti, l’elemento della fanopea e della melopea. La visione e il suono. L’irrompere della presenza umana, dopo un’iniziale resistenza, regala invece alla narrazione la sua logopea. Il tentativo di resistenza è quello di Jane che, nell’udire il calpestio sui ciottoli degli zoccoli del cavallo prima ancora di vederlo, non ricorre a una spiegazione razionale. Non pensa “sta arrivando un cavallo”, ma si rifugia, quasi negando il diritto dell’uomo e dell’animale a prendere parte allo spettacolo della natura, nel regno dell’immaginario, del fantastico. Ricorre alle storie che la sua bambinaia le raccontava da piccola e, in particolar modo, alle leggende sul “Gytrash”, uno spirito che, nella mitologia inglese, poteva comparire “sotto forma di cavallo, di mulo o di un grosso cane”. Così, quando da sotto un cespuglio spunta un cane bianco e nero, Jane trova conferma a questa sua ipotesi: si tratta proprio del Gytrash. La presenza animale non spezza ancora del tutto la magia, l’incantesimo del mondo naturale. A spezzarlo, questa volta definitivamente, sarà solo l’uomo, il cavaliere che Jane vede in groppa al cavallo, poiché il Gytrash non può essere cavalcato: “l’uomo, l’essere umano, spezzò subito l’incantesimo”, con quel broke che fa l’eco al primo broke, due paragrafi prima. In questo modo, la dominante sul piano del contenuto e quella sul piano espressivo si riequilibrano un po’. Anche perché l’irrompere della presenza umana si esplicita e si definisce anche, e soprattutto, attraverso il dialogo.
L’uomo che spezza l’incantesimo è il Mr Rochester, anche se Jane non lo sa. La prima voce umana a irrompere sulla scena è la sua, e in un modo anche piuttosto brusco, con un’imprecazione nel cadere da cavallo: What the deuce is to do now? Lo ritroviamo poi a terra, di nuovo intento a imprecare e a ignorare l’offerta di aiuto di Jane. E quando, finalmente, le si rivolgerà per la prima volta sarà per invitarla a farsi da parte.
Eccolo qua, Mr Rochester: un uomo scontroso, irascibile, ironico, brusco, caustico. A presentarcelo meglio sarà Jane stessa, poco più avanti, in un vero e proprio ritratto – è il caso di dire – fisiognomico. In una descrizione che, specularmente, parla anche di lei: di fronte a quest’uomo non particolarmente avvenente né gentile, Jane si sente a suo agio. La bellezza, il fascino, l’eleganza sono qualità che la mettono a disagio, perché è lei stessa la prima a non sentire di possederle. Questo ritratto nel ritratto è una piccola preziosa perla della psicologia della protagonista.
Nei dialoghi tra Jane e Mr Rochester, la premura della traduzione sta tutta nel conservare il ritmo molto serrato delle battute. Nelle risposte secche, lucide, cristalline di Jane e in quelle provocatorie, ironiche, sarcastiche di Mr Rochester. Un botta e risposta che contiene il gioco dell’equivoco: Jane non sa che il cavaliere che ha davanti è Mr Rochester, il suo padrone (lo scoprirà solo in seguito), l’uomo invece sa che la ragazza che lo ha soccorso è Jane Eyre, l’istitutrice, visto che è lei stessa a presentarsi. Due piani di consapevolezza diversi che palesano, meglio di qualunque analisi approfondita, i tratti salienti dei caratteri dei due protagonisti.
In questa breve porzione di romanzo, come già detto, si ritrovano in nuce gran parte dei registri narrativi che Charlotte Brontë utilizza nel corso di tutto il romanzo. Tradurre significa allora stabilire, di volta in volta, quale sia la dominante testuale e portarla a resa. Lavoro non semplice, soprattutto quando si ha a che fare con un classico. Se è vero, infatti, ciò che dice Antonia Susan Bajatt del traduttore di letteratura contemporanea, quando afferma che egli deve “appollaiarsi dentro il cranio di un altro e cercare di ascoltare, vedere, sentire”, questo vale ancor di più per i classici: bisogna saper ascoltare con attenzione, tendere l’orecchio più che mai. Dal momento che, rispetto ad essi, non esiste altro modo di comunicare con l’autore.
Friedmar Apel, in Il movimento del linguaggio, parla del movimento del linguaggio nel tempo. E fa riferimento alla necessità di ri-tradurre un classico. La lingua è, infatti, in continua evoluzione. E a essere in movimento non è soltanto quella d’arrivo ma anche quella di partenza. Apel sostiene che anche il testo originale ha una sua mobilità nel tempo, perché in movimento sono – semanticamente – le parole di cui è composto e in costante mutamento sono anche le sue strutture sintattiche e grammaticali. Non è come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Non va avvicinato come fosse uno scoglio immobile nel mare, ma piuttosto come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, laddove l’opera stessa è in costante trasformazione. Il dinamismo del testo di partenza si incontra dunque con il dinamismo del testo d’arrivo. Per cui la traduzione sarebbe l’incontro, unico e irripetibile, tra due dinamismi complementari. Quest’incontro è poietico, tra due differenti poiein (‘fare’). La traduzione sarà allora l’incontro tra due poetiche: quella del traduttore e quella del tradotto. Se cambia la prima, deve, inevitabilmente, cambiare anche la seconda. Un testo scritto nell’Ottocento non è un pezzo di d’antiquariato. È un sistema linguistico vivo e in quanto tale va trattato. Il traduttore dovrà quindi prestare particolare attenzione a non cadere nella tendenza deformante che Antoine Berman chiama “nobilitazione” o in quella che potremmo chiamare, con un neologismo, “anticazione” , che consiste nell’applicare le nostre categorie (contemporanee) di ‘antico’ a qualcosa che appartiene a un’epoca passata. Quando è stata scritta, l’opera era assolutamente ‘contemporanea’.
Anche nel tradurre un classico, non si può fare a meno di ricorrere all’italiano dei nostri giorni. E optare per sostantivi, aggettivi, verbi più ‘vivi’ di quelli che esigerebbe una fedeltà maniacale al testo. Seguire la lettera non significa dar vita a una traduzione letterale. La lettera è voce, anima e corpo, forma e sostanza. È carne della parola. Al traduttore, più che di essere fedele, si chiede di essere leale.