Spesso noi traduttori ci lamentiamo di non avere abbastanza tempo. Ne vorremmo di più per tradurre, rileggere, ripensare alle nostre scelte, cambiare idea. Per Pezzi di vetro, la sensazione è stata fin dall’inizio che il tempo – a prescindere da quanto ce ne fosse – non sarebbe bastato mai. La traduzione di questo romanzo si è accompagnata a una gigantesca mole di dubbi, ripensamenti e profonde difficoltà su cui, anche solo dal punto di vista della loro comprensione e definizione, mi sento ancora molto indietro. Ma forse proprio per questo può essere utile parlarne – e ringrazio Dori Agrosì per avermene dato occasione e spazio qui su La Nota del Traduttore – fermo restando che mai come per questo romanzo ho sentito e sento viva la definizione di traduzione come qualcosa di aperto e di incompleto.
Verre cassé (questo il titolo originale) di Alain Mabanckou, infatti, è un libro talmente ricco nelle sue risonanze che il traduttore (o almeno: questo traduttore) prova a ogni momento, quasi contemporaneamente, l’esaltazione dell’ostacolo da superare e il gravoso peso del residuo. Quasi ogni frase, ogni paragrafo richiede scelte coraggiose per funzionare, ma questo stesso fatto scaraventa nel limbo del non detto (del non tradotto) una tale quantità di bellezza che la testa gira e il lutto può solo aumentare nell’andare avanti. Mai come questa volta ho avvertito costantemente, per così dire in punta di tastiera, la fragilità dell’atto di tradurre. Inoltre (come sempre, certo, ma stavolta in modo molto più intenso del solito, per me) ogni scelta per quanto piccola condizionava, bagnava di sé tutte le altre, rendendo difficilissimo tenere salde le fila della traduzione.
Anche per questo (che mi è sembrato chiarissimo fin dalla prima lettura) ho chiesto alla casa editrice di essere seguito dappresso in corso d’opera, per confrontarci e anche indirizzare una serie di scelte che avevo subito intuito difficili e controverse. La 66thand2nd ha immediatamente acconsentito, scadenzando una serie di riunioni tra me, redazione e direzione editoriale in modo da confrontarci sui punti più delicati, e voglio ringraziare qui in particolare la caporedattrice Eleonora Cucurnia, che alla fine ha lavorato con me giorno e notte – anche nel fine settimana prima di Natale, con le valigie sotto il computer – per mandare in stampa un libro che personalmente non avrei mai voluto licenziare. Io e lei abbiamo avuto discussioni anche aspre (peraltro a orari impossibili e in condizioni di salute precarie per entrambi), ma se questa traduzione ha finito per correre qualche rischio di bellezza si deve a esse, allo scrupolo e alla passione che le ha caratterizzate. In tempi in cui – secondo me – nelle redazioni si parla troppo di marketing, poter dar conto di un traduttore e una redattrice che saltano il pranzo per discutere di letteratura mi sembra una ventata di speranza.
Cercherò di descrivere il più sommariamente possibile le problematiche che abbiamo dovuto affrontare procedendo con un minimo di ordine, benché ogni punto si mescoli nell’altro fino a confondersi. Non parlerò delle difficoltà più evidenti (tipo del fatto che la punteggiatura del romanzo è composta solo di virgole) bensì di quelle che mi hanno condizionato più nel profondo. A volte potranno sembrare quisquilie, ma la traduzione, si sa, si compone soprattutto di piccole cose senza importanza...
I. L’altro (anzi l’altra)
Nonostante il romanzo abbia non più di dieci anni di vita, Pezzi di vetro non è una prima traduzione. Verre cassé (così recita anche il titolo della sua prima traduzione italiana) è già stato tradotto da Martina Cardelli nel 2008 (due o tre anni dopo la sua uscita in Francia, quindi), per Morellini. Il libro ormai si trova solo in biblioteca, ed è un peccato. È un peccato perché sarebbe bello poter dare al pubblico la possibilità di leggere quello che molti ritengono il capolavoro di Mabanckou in due versioni italiane distinte.
Qualche anno fa, sulle pagine di questo stesso sito, dicevo di non sentirmi ancora pronto per confrontarmi con i traduttori venuti prima di me. Sbagliavo. Non che adesso mi senta più pronto di allora (a ogni romanzo, anzi, mi pare di ricominciare sempre più da zero), ma per un libro del genere, con i problemi che veicola (già così simili a quelli di un classico, nonostante la sua giovane età), mi è stato impossibile non seguire il consiglio che Susanna Basso dà nel suo libro Sul tradurre, di intessere cioè con il lavoro precedente dei colleghi un fecondo dialogo. E così, nei punti più difficili – ma poi, verso la fine, anche a casaccio, quasi per affetto –, laddove la scelta mi era particolarmente penosa, andavo a vedere cosa Martina Cardelli aveva deciso di conservare e a cosa – a malincuore, su questo non ho il minimo dubbio – aveva dovuto rinunciare. Questo andirivieni tra la mia traduzione in fieri e la sua, pubblicata, si è sviluppato quasi come un rapporto d’amore, un piccolo adulterio che entrambi ci permettevamo in segreto a spese dell’originale: si è ingenerato timidamente, ha avuto un picco di frequentazioni verso metà del lavoro, per poi ridursi a un’amichevole intimità pur seguendo ciascuno la sua strada. Mi sembra che da questo confronto, da questo piccolo tradimento tra traditori alla ricerca di una più profonda fedeltà, la mia traduzione sia uscita molto arricchita. La speranza è che, a posteriori, questo valga anche reciprocamente – almeno un po’.
II. Il nome, i nomi
Come abbiamo detto più volte, Pezzi di vetro di Mabanckou, in originale, si intitola Verre cassé. Verre, in francese, significa sia «bicchiere» che «vetro» (come glass in inglese, e infatti in inglese Verre cassé si intitola Broken Glass – Dio, quanto ho invidiato Helen Stevenson, la sua traduttrice britannica). Verre cassé è la storia di un alcolizzato che comincia a scrivere a sessant’anni, controvoglia, solo per far piacere a un amico e che alla fine si suicida. Non sappiamo come si chiami questo signore, ma conosciamo il suo soprannome: Verre cassé, appunto, che veicola tutta la fragilità del materiale umano (e linguistico, naturalmente) di cui è fatto il protagonista.
Di solito, è l’editore a scegliere il titolo della traduzione. Ma in questo caso non si trattava solo di un titolo. È anche il nome del protagonista (nel libro compare un bel po’, poco meno di una cinquantina di volte), una metafora del contenuto del romanzo e di una condizione umana in generale, nonché un’immagine portatrice di una sua bellezza anche al di là dei suoi richiami metaforici. Insomma un’ouverture, anzi meglio: una vera e propria copertina. Qualcosa che dava per così dire il la a tutto il romanzo. Come avrei fatto a tradurlo, senza sapere in che tonalità?
All’inizio, stimolato dalla redazione a produrre materiale purchessia in modo da poterci lavorare, ho tirato fuori una lista (che conservo) di una ventina di possibilità, alcune orrende altre decisamente da vergognarsi, che andavano dal più o meno letterale «Vetro spezzato/scheggiato/rotto» a una serie di improbabili combinazioni tra «culi» e «cocci» di bottiglia e «vino» declinato in svariati modi («bicchiere» lo avevamo scartato fin da subito, per ragioni che dirò tra poco – nonostante l’importanza del termine, visto l’alcolismo del protagonista). Nel testo, mentre lavoravo, provavo a inserire ora l’uno ora l’altro, per vedere come funzionavano. Ogni volta, la scelta mi tornava in faccia come una manata.
Alla fine la soluzione (solo una delle soluzioni possibili, ripetiamolo) è venuta da un misto di considerazioni analitiche e di azioni inconsce.
L’azione inconscia principale è stata quella di aver tradotto d’istinto tantissime occorrenze di cassé/casser (rotto/rompere) presenti nel romanzo con «a pezzi». A un certo punto me ne sono accorto, e mi sono chiesto il perché. Mi sembrava un segnale. Evidentemente, da qualche parte di me, sotto il pelo dell’acqua, questo era un romanzo «a pezzi», pieno di gente «a pezzi», di citazioni «a pezzi», di «pezzi» di macerie dappertutto che si componevano miracolosamente in una composizione fantasmagorica. E allora perché non «Pezzi» anche per Verre? «Pezzi di vetro»? L’ho buttata lì alla redazione senza troppa convinzione, primo perché un nome proprio al plurale poteva risultare ostico, ma soprattutto perché Pezzi di vetro è anche il titolo di una famosissima canzone di Francesco de Gregori, e un richiamo a una cultura popolare italiana così smaccato, proprio nel titolo, aveva quanto meno l’aria un po’ forzata.
A questo punto, però, sono intervenute le considerazioni analitiche. Una era dovuta agli altri «nomi parlanti» del romanzo (tra l’altro, già un romanzo per adulti con nomi parlanti – che di solito si usano molto di più nella letteratura infantile – è una bella gatta da pelare): ce ne sono molti, alcuni dei quali veri e propri titoli di romanzi di altri scrittori (sulla girandola vorticosa di rimandi all’interno del testo torneremo tra poco), traducendo i quali avevamo deciso, a volte, di usare rimandi alla cultura italiana non necessariamente presenti in quel punto del testo (ma in altri sì: in Verre, Mabanckou cita esplicitamente Dino Buzzati e Umberto Eco, tra gli altri). Un ulteriore spunto di analisi veniva dalla quantità di veri e propri riferimenti alla cultura popolare e folklorica, spesso versi e titoli di canzoni, contenuti nel romanzo (tanto che un altro dei problemi – forse il più difficile – sarebbe stato come comportarsi di fronte a brani di frasi che per il lettore francese erano versi famosissimi, immediatamente riconoscibili). Infine, dal fatto che il nome del protagonista doveva avere la forza di un’immagine, un’immagine da poter mettere in copertina, perché di questo si tratta, in originale (e dunque doveva rispondere a criteri ritmici rigidi: brevità, forza, richiamo classico, tutti abbastanza ben contenuti nel dattilo e nello spondeo di cui «Pezzi di vetro» si compone).
Insomma, «Pezzi di vetro» aveva l’aria di funzionare, per questa traduzione, sia in copertina che all’interno del romanzo. Alla redazione piaceva, ma hanno voluto sentire Mabanckou, il quale, dopo essere stato reso edotto dei pro e contro di una simile scelta per l’italiano, ha tagliato la testa al toro dicendo che l’immagine rispecchiava quello che intendeva dire lui con Verre cassé, e per di più suonava bene. Forti di questo avallo, abbiamo deciso di provare. Ricordo perfettamente la sensazione di terrore quando, a pochi giorni dalla consegna, ho usato lo strumento «Cerca e Sostituisci» per inserire «Pezzi di vetro» nelle varie occorrenze. Ma poi, rileggendo quelle frasi che all’improvviso sembravano prendere vita, abbiamo visto che poteva funzionare. Così lo abbiamo usato, Dio ci perdoni.
III. La musica
Se il ritmo era così importante per il titolo (nonché nome del protagonista), non sarà difficile immaginare quanto lo fosse per il resto del romanzo: rime, cellule ritmiche, andamenti di paragrafi che seguono schemi ben precisi attraverso l’uso di ripetizioni (di una o gruppi di parole) e della virgola usata come un basso continuo, addirittura versi di canzoni inseriti qua e là nelle frasi (per non parlare dei titoli di altri libri, romanzi e saggi, sparsi con non meno generosità tra le pieghe del romanzo; e tutti sappiamo l’importanza del suono, del ritmo, per qualsiasi titolo). Non era pensabile perdere questa trama, che percorre tutto il romanzo da cima a fondo. Una delle fatiche più improbe nella fase di revisione è stato trovare un compromesso tra il conto certosino delle sillabe e degli accenti, per evitare di perdere questo tipo di intelaiatura, e la necessità di mantenere l’agilità di lettura che pervade tutto il romanzo.
Un altro problema non indifferente è stato posto dalle rime. Noi siamo abituati a considerare rime e assonanze come qualcosa di inelegante. Personalmente non ho mai capito perché, ma come traduttore, fintanto che questi elementi non risultano importanti per il testo che vado traducendo, posso anche adeguarmi volentieri. Solo che Verre cassé è attraversato, anzi, addirittura infuso di questi elementi. Non era pensabile rinunciarci, anche a costo di sembrare sgraziati per le nostre attuali abitudini editoriali. Da una parte questo elemento di «malagrazia» cascava a fagiolo, perché Verre cassé è un libro che usa una serie di elementi volutamente rozzi (ci torneremo) ma dall’altra non potevamo non tenere in considerazione il fatto che quello che in originale rappresentava un segnale di eleganza rischiava, senza il giusto dosaggio, di essere vissuto esattamente al contrario dal cosiddetto lettore di arrivo. Come sempre, si trattava di un problema di misura, e vai a sapere se ce l’abbiamo fatta o meno.
Infine, c’era la voragine delle ripetizioni. Un tempo, in traduzione italiana si variava sempre punto e basta, a prescindere da cosa avesse fatto l’autore. Oggi, dopo una serie di autorevoli interventi a livello teorico e pratico, la moda comincia ad andare nella direzione opposta (il che è altrettanto insensato, secondo me, perché non si tratta di riprodurre acriticamente tutte le cosiddette ripetizioni d’autore, ma di trovare le parole chiave della nostra interpretazione, e solo a quelle non rinunciare mai). Si rischia di arrivare così a conflitti redazionali basati non sulla lettura del testo, ma su preconcetti teorici o pratici che a volte hanno ben poco costrutto, rispetto al romanzo di volta in volta in discussione. Personalmente, lo ammetto senza pudore, sono uno che – così come rimeggia e assona ossessivamente – tende anche a ripetere senza la minima remora – non solo riproducendo le ripetizioni che mi sembrano importanti nell’originale, ma anche creandone di nuove che abbiano senso all’interno della traduzione – sempre, ovviamente, per evidenziare elementi dell’originale, che però magari lì sono stati marcati in altro modo. In Verre cassé, in più, c’è il problema dell’ironia, per cui l’autore dissemina il testo di finte dichiarazioni in favore del classico bello stile, che poi distrugge sistematicamente nel processo di scrittura. Bisognava cioè non solo prendere posizione, ma saperla anche smontare in modo ironico. Del risultato non so che dire, se non che tiravo un sospiro di sollievo ogni qualvolta vedevo mia moglie, a cui davo da leggere brani del testo tradotto, sorridere con aria sorniona: in quei momenti, provavo a credere di non aver sbagliato proprio tutto.
IV. Le voci
Uno dei nodi di Verre cassé è il rapporto con l’oralità e con lo stile basso, rabelesiano (sia dal punto di vista del comico che del grottesco), di cui il romanzo è pervaso. All’inizio sembrava facile: per uno come me, che con il parlato ci va a nozze, sarebbe bastato far parlare i personaggi. Sì, col cavolo.
A una lettura appena appena più attenta, infatti, vedevo che proprio i dialoghi riprodotti erano quelli più costruiti, più teatrali anzi addirittura teatrosi (e quindi tutto sommato più finti), pieni di rimandi e citazioni anche alti, di andamenti classici, da tragedia del Seicento francese (anch’essa citata a man bassa), mentre proprio quei punti in cui l’autore sembrava riflettere e ragionare avevano le stimmate del parlato, la sintassi rotta, le inversioni per enfasi e ripensamento, la significazione – almeno apparentemente – affidata più alle ripetizioni che ad assonanze e rime. Si trattava quindi di lavorare i dialoghi con bravura ostentata, facendo vedere la mano del fabbro, per così dire, e le altre parti con perizia nascosta, manovrando la lingua con più naturalezza. Chi parla, insomma, doveva sembrare più letterario di chi pensa, che doveva invece portare la bandiera di un’oralità più immediata (e, quindi, mimare l’improvvisazione). Anche qui, il gioco di specchi era fondamentale.
Tutto ciò – che è eminentemente ironico, e dunque tutt’altro che basso – andava immerso in situazioni e modi di parlare tipicamente rabelesiani: parolacce, scatologia a man bassa, sessualità e digestione ostentate ovunque, in una continua provocazione al lettore a tratti anche sgradevole. Il perché lo lasciamo ai critici, ma perché i critici possano trovare un perché bisogna dargli il che cosa. Nella fattispecie, non dovevamo mollare l’osso della corporalità di cui i personaggi, e il loro modo di parlare, trasuda. Ora, non è facile chiedere a una casa editrice di pubblicare qualcosa con queste caratteristiche. È inutile che ci nascondiamo dietro a un dito: sappiamo tutti benissimo come funzionano censura e autocensura in questi casi, quanto poco basti per cambiare completamente di segno la forza di un’espressione, pur restando all’interno dei limiti di una traduzione tutto sommato corretta. E qui non si trattava di turpiloquio, o almeno non soltanto: la sgradevolezza, la scorrettezza, l’antipatia, a volte addirittura la violenza risiedevano nelle stesse immagini, nel saper dire in modo sgradevole anche ciò che sgradevole non è (almeno, non necessariamente). Ricordo alcune telefonate in cui traspariva il disgusto imbarazzato della redazione per alcune mie scelte tese a provocare nel modo più esplicito possibile una repulsione che avvertivo voluta dall’originale. Anche qui, voglio dare atto al coraggio della 66thand2nd per non essersi tirata indietro, per aver capito e appoggiato le mie istanze di sgradevolezza, per così dire, che sono ancora convinto fossero più che mai necessarie per meglio preparare gli squarci luminosi che Mabanckou sa regalarci con lo stesso materiale che usava Baudelaire e, oso dire, quasi con la stessa maestria.
V. Altri nomi, altre storie
E veniamo alle dolenti note, alla perdita più drastica, più dolorosa. Verre cassé è in realtà un collage. Un collage tutt’altro che dadaista, anzi. Un collage programmatico, che sa di presa di posizione politica ed estetica: l’uso e il riuso – ai confini del cannibalesco – della letteratura mondiale in tutte le sue forme (anche teatrale e musicale), come patrimonio artistico comune.
Mabanckou, per far questo, infarcisce il suo testo fino a farlo scoppiare di rimandi ad altri scrittori, titoli, trame, personaggi, versi e frasi di canzoni (lo abbiamo detto). Come dar conto di tutto ciò, quando molti dei libri che cita nemmeno sono tradotti in italiano o – quando si scopriva con gioia che il testo citato esisteva anche nella nostra lingua – il titolo italiano risulta molto diverso dall’originale (o dalla sua traduzione francese), tanto da inserirsi a malapena non dico nel flusso, ma addirittura nella logica del testo? E che dire dei versi di canzoni, per un francese riconoscibili a prima vista ma impossibili da individuare per il lettore italiano traducendone semplicemente il significato? E le poesie classiche, pure citate a man bassa ma le cui traduzioni attestate rispondevano a criteri stilistici e ritmici diversissimi da quelli di Verre? Che fare?
Infarcire il testo di note era fuori discussione, avrebbe interrotto una continuità indispensabile per capire e godere appieno il romanzo. Far finta di niente e tradurre tutto come se non si trattasse di citazioni ci sembrava una violenza non meno insopportabile. E allora? Quali scegliere, tra le molteplici soluzioni che si prospettavano? Quando un romanzo citato non era tradotto in italiano, usare titoli di altri romanzi degli stessi autori tradotti nella nostra lingua? Quando il titolo di un romanzo citato risultava diverso in francese e in italiano, privilegiare il senso della frase o il meccanismo della citazione, a rischio di risultare insensati (era possibile: anche l’autore lo fa, in alcuni casi)? Dare indicazioni geografiche di qualche tipo, per alludere a una provenienza anche vaga, come fa lo stesso Mabanckou qua e là nel testo? E per le citazioni dei classici? Usare traduzioni esistenti o ritradurre secondo gli scopi ritmici e stilistici di questa traduzione? E qualora il rimando fosse impossibile da cogliere (come per i riferimenti alle canzoni)? Tradurre letteralmente? Usare una marca musicale di qualche genere (la rima baciata e il metro, tipicamente)? O localizzare in modo spudorato, usare addirittura versi di canzoni italiane, in modo da ricreare quell’intermittenza del cuore sulla cui potenza si è espresso Pier Paolo Pasolini (del resto, se avevamo deciso di correre questo rischio fin dal titolo...)? E che dire del meccanismo intrinseco? Riprodurlo o no? Se Mabanckou aveva usato Achebe e García Marquez, Rabelais, Villon e Brassens, perché non farsi prendere la mano e cospargere la traduzione anche di Leopardi e De André, Dante e Marinetti, laddove l’ispirazione sorgesse e l’originale ne desse lo spunto? Perché non tradurre intimamente non solo le parole, ma proprio il meccanismo intrinseco dell’originale?
Anche qui, era una questione di misura, e a un certo punto devo ammettere di averla persa. Non volevo abbandonare niente, nessun riferimento intertestuale, usavo tutti i mezzi, qualsiasi segnale, quelli sopra descritti e altri ancora, fino quasi a far scoppiare il testo con il bubbone della mia foga salvazionista. Qui è calata più prepotente la scure redazionale, lacerante quanto necessaria. Ancora mi sanguina il cuore per la perdita di un paio di versi di De André (che del resto ha tradotto Brassens), ma oggi tutto sommato penso che sia meglio così.
Ecco, questa è la storia di questa traduzione, molto simile tutto sommato a quella di qualsiasi altra, mi pare. Una storia niente affatto solitaria, fatta di confronti serrati, di ripensamenti e inversioni di rotta. Una storia che, nonostante le sue contraddizioni, non ha niente a che fare con l’adulterio e l’adulterazione e tutto con una profonda aspirazione alla fedeltà. Una storia, insomma, che come al solito smentisce i vari luoghi comuni su solitudine, invisibilità, tradimento, tipici della mitografia sui traduttori e sulla traduzione.
Smentisce anche quello sulla sconfitta, sulla perdita? Apparentemente no. Non si può tradurre senza perdere qualcosa, questo è un mestiere che si costruisce sui «pazienza», sui «sarà per la prossima volta»: immagino faccia parte del suo fascino. Una storia di piccole sconfitte, dunque. Certo. Che però, tutte insieme, formano quello che mi ostino a considerare ogni volta una grande vittoria, perché con quelle sconfitte contribuiamo a portare su questa riva, su queste magre sponde, almeno qualcosa di un altro mare, altri suoni, altre voci, altre storie, di cui ormai si compone anche la nostra. A conti fatti, un guadagno non indifferente. Almeno fino alla prossima traduzione.