Tradurre L’orso che non c’era ha rappresentato per me una prima volta, anzi, un insieme di prime volte. Innanzitutto, è stata la prima volta in cui ho tradotto un testo letterario dall’inglese, dato che la maggior parte delle mie esperienze traduttive ha avuto finora a che fare col francese, con qualche puntatina nel tedesco.
È stata inoltre infine la prima volta in cui mi sono trovata a tradurre un originale potendo sbirciare ampiamente (e traendone ampi spunti di riflessione) un’ottima traduzione pregressa in tedesco.
L’orso che non c’era, infatti, scritto originariamente in inglese dal cantautore e autore teatrale israeliano Oren Lavie e illustrato dal celeberrimo Wolf Erlbruch, è stato pubblicato in Germania dalla prestigiosa casa editrice indipendente Antje Kunstmann di Monaco di Baviera col titolo di Der Bär, der nicht da war nella traduzione di Harry Rowohlt, poliedrico attore, scrittore e traduttore insignito di vari premi proprio per la traduzione e la diffusione della letteratura per l’infanzia.
È stata infine la prima volta in cui, per l’appunto, mi sono trovata a tradurre un testo letterario per l’infanzia, per quanto un po’ sui generis: L’orso che non c’era, infatti, un po’ per il tema affrontato e un po’ per il particolare linguaggio anche iconografico di cui è impregnato, strizza decisamente l’occhio anche a un pubblico di lettori adulti.
Proprio per questa duplice natura del testo i criteri che ho cercato di osservare nel corso della traduzione sono stati molteplici: per quanto riguarda le scelte lessicali, per esempio, ho dovuto tenere in considerazione da una parte la necessità di rendere un linguaggio a tratti poetico senza però alzare troppo il registro del testo, proprio per non perdere di vista il destinatario primario di questa piccola favola filosofica, che sono e restano i piccoli e giovani lettori; dall’altra parte, mi è stata sempre molto chiara l’urgenza di non semplificare troppo e quindi rischiare di banalizzare un testo che affronta un tema fondamentale dell’essere umano, ovvero la ricerca e la definizione dell’identità dell’individuo.
Sempre per quanto riguarda le scelte lessicali e terminologiche, un altro fattore da tenere presente è stato quello della lunghezza delle frasi e talvolta delle parole: l’inglese come ben sappiamo è strutturalmente più breve dell’italiano, ovvero in media necessita di un numero inferiore di caratteri per esprimere lo stesso concetto. Nel caso dell’Orso che non c’era, libro in cui le illustrazioni non sono un corollario del testo, ma parte integrante della costruzione del senso della favola, è stato dunque di fondamentale importanza un accurato e incessante lavoro di limatura per rispettare il rapporto tra parole e immagini e fare in modo che le prime non rubassero spazio alle seconde, né per così dire “sparissero” al confronto.
L’altro elemento a cui ho cercato di prestare particolare attenzione è stato quello della musicalità: L’orso che non c’era è l’opera prima letteraria di un affermato musicista e cantautore e dunque mi è sembrato importante cercare di rispettare le inclinazioni dell’autore nei confronti della musica e del ritmo, sicuramente per lui imprescindibili e in un certo qual modo innate. Per entrare nelle corde dell’autore, perciò, ho cercato di ascoltare il più possibile della sua produzione musicale e si può dire quindi che le canzoni di Oren Lavie sono state la colonna sonora di questo lavoro di traduzione.
Sempre per quanto riguarda l’aspetto della musicalità e del ritmo, la volontà di ottenere una buona traduzione anche sotto questi aspetti ha comportato la necessità di reinventare i nomi di alcuni personaggi della favola (per esempio, la Convenience Cow dell’originale è diventata la Mucca Mollacciona e la Lazy Lizard un Ramarro Rilassato, per rispettare l’allitterazione delle iniziali insieme all’elemento, di certo non modificabile, di quanto raffigurato dalle illustrazioni) o quella di riscrivere, in un caso ex novo, le filastrocche presenti nel testo.
La rielaborazione più cospicua si è avuta con la filastrocca conclusiva, che nell’originale suonava così:
Some Bears look exactly like themselves
When they look into the mirror (and wink)
And that’s how I recognized myself (I think)
Lavorando sugli elementi del riconoscimento, dello specchio, dell’occhiolino, e adottando la forma metrica della quartina, di sicuro più diffusa e popolare rispetto a quella della terzina, la versione italiana alla fine è risultata la seguente:
Davanti allo specchio, a certi Orsi,
Basta uno sguardo per riconoscersi.
E per esser sicuri, se hanno dei dubbi,
Si fanno l’occhietto… capito che furbi?
Rielaborazioni di questo tipo, a un traduttore che voglia svolgere onestamente il proprio compito, in genere fanno tremare le vene ai polsi, perché il pericolo di esagerare e in qualche modo tradire il testo originale si manifesta con grande forza; e dunque in questo caso tutta la mia gratitudine va all’edizione tedesca che in qualche modo mi è stato di riferimento per stabilire i limiti del lecito e dell’accettabile.