Tradurre un autore “che non somiglia a niente” è sempre una gran bella scommessa. Ma se la scommessa ha il nome di Daniel Sada, la posta in gioco è di sicuro molto alta.
Con Il linguaggio del gioco, romanzo postumo dell’autore messicano, potremmo affermare che Sada abbia – volutamente – ceduto dinanzi alla grande tentazione di narrare, come molti altri autori suoi connazionali, di quel Messico segnato da sanguinose lotte intestine tra bande di narcotrafficanti. Basti pensare a Quasi mai che è sicuramente uno dei capolavori di punta dell’opera di Sada, la storia eroticomica di un triangolo amoroso la cui area è circoscritta da madri invadenti e zie pettegole, il tutto collocato nell’arido scenario del deserto messicano.
Ne Il linguaggio del gioco, invece, Sada decide di investire la propria penna in un tema ben più convenzionale. Eccoci dunque in quel di San Gregorio, paese nel nord del Messico a ridosso della frontiera statunitense. Frontiera che Valente Montaño ha attraversato in maniera illegale più e più volte al solo scopo di fare fortuna. E soltanto dopo aver raggiunto una cifra ragguardevole, decide che è arrivato il momento di dare una svolta alla propria vita e a quella dei suoi cari. Apre perciò una pizzeria, sfidando un’intera comunità e un intero paese in cui le tortillas la fanno da padrone. Yolanda, la moglie di Valente, è la classica donna ingenua e comprensiva che seguirebbe il proprio uomo in capo al mondo. Candelario e Martina, i figli della coppia, hanno invece grandi sogni da voler realizzare, ma nel mentre si contentano di aiutare il padre nelle mansioni della pizzeria. L’armonia familiare non dura a lungo però. Candelario, infatti, stanco di guadagnarsi da vivere alla mercé di suo padre, fugge di casa…
La narrazione prosegue in un susseguirsi di guai, eppure, non manca mai l’ironia in Sada, neanche in un romanzo in apparenza drammatico in tutto e per tutto, in cui vige chiaramente la legge del più forte. È addirittura possibile affezionarsi ai personaggi più crudeli, soprattutto laddove essi diventino paladini di una giustizia che ha in verità la mera sembianza di un regolamento di conti. Non manca l’ironia neppure nel momento in cui Sada stesso si riferisce al suo Messico chiamandolo Magico, e traslare in questo modo l’intera geografia su di un piano pseudosurreale, nel senso che ogni località, ogni paese e ogni città riceve dall’autore un nome fittizio che, però, richiama sempre e comunque quello originale.
Come accade in altre opere sadiane, si può parlare in merito a Il linguaggio del gioco di testo autentico, inteso come non destinato a fini didattici, o – meglio ancora in tal caso – linguistici. Ho sempre concepito la lingua di Sada come insignita di una purezza e di una disinvoltura tali da non curarsi di eventuali processi di traduzione verso altre lingue. Si tratta, piuttosto, di una lingua che si preoccupa di giungere al lettore nella sua efficacia e nella sua singolarità. Certo è che quando è il traduttore a maneggiarla, c’è da essere assai prudenti come se si avesse tra le mani un candelotto di dinamite. Un uso ricorrente, quasi scriteriato, di periodi nominali, arcaismi e neologismi è forse l’aspetto più evidente che meglio rappresenta la difficoltà che si riscontra nel tradurre Sada, tanto che alle volte sarebbe impossibile risolvere un dubbio anche andando a chiedere al di là dell’Atlantico.