Non è sempre tutto rose e fiori in traduzione, i traduttori lo sanno.
Docente di epistemologia all’università di Lisbona, Tavares è un intellettuale che si è da sempre confrontato con diversi ambiti del sapere, come dimostra la sua prolifica vena creativa, dalla poesia al teatro, dalla prosa alla saggistica, e con un mondo letterario, filosofico e fotografico in testa (basti pensare alle 500 e più pagine del mastodontico Atlas do Corpo e da Imaginação). Tradurre un romanzo di uno scrittore intellettuale come lui, di cui è stata, tra l’altro, pubblicata in italiano parte dell’opera, comporta inevitabilmente un supplemento di letture e di attenzioni.
Il mio primo obiettivo, nel tradurre Os senhores, era stato dunque restituire un testo che fosse il più possibile godibile: prioritario era cogliere e conservare i numerosi riferimenti letterari, le ironie, i paradossi, le citazioni nascoste e gli occhiolini di cui sono imbevute le quattro brevi prose, affinché il lettore italiano potesse godere appieno di un autore che scrive su differenti piani di lettura che si intrecciano, si allineano o si sovrappongono, da quello più terso e favolistico fino a quello che coglie con gusto intellettuale il gioco di rimandi tra gli scrittori reali, i loro personaggi e la manipolazione tenera o parodica che ne consegue.
Un particolare da non trascurare durante la traduzione di questi signori di cui volevo rendere conto in questo spazio riguarda la coerenza semantica: chi ha una certa dimestichezza con la prosa estremamente colta e intelligente di Tavares saprà che usa con precisa consapevolezza determinati connettivi logici, ad esempio, fondamentali per la sua particolare ironia che trova origine nel gioco linguistico, nel sillogismo, nella fallacia, nel paradosso, nella contraddizione.
Di seguito, vi presento, uno a uno, Lor signori.
Il signor Calvino (e la passeggiata) adora passeggiare per la città e raccontare storie, è un sognatore, “portatore di un’insolita gentilezza”, discreto, attento e meticoloso; vive nello stesso quartiere del signor Valéry (e del signor Kraus e del signor Walser...), con cui sembra condividere alcune eccentriche fisime mentali. Forse i due signori non si sono neanche mai incontrati in giro per il quartiere (o bairro), eppure hanno in comune molte cose: manie, ossessioni, sfide esistenziali, la singolare vocazione per il paradosso, la pungente ironia, il virtuosismo speculativo e, soprattutto, l’esercizio estremo e surreale della logica.
Sembra ovvio che a partire da tali premesse qualsiasi parallelismo con il Calvino scrittore e traduttore che conosciamo risulta quanto meno stridente se non del tutto improponibile: eppure l’analogia non è soltanto un pretesto per poter costruire le divagazioni ludico–filosofiche che caratterizzano il personaggio e che spiazzano il lettore (e, prima ancora, il traduttore), prospettandogli un punto di vista assolutamente nuovo, insolito e fuori dagli schemi precostituiti della logica convenzionale; il Calvino di Tavares è sia un omaggio all’omonimo scrittore sia un’importante chiave di lettura del testo per coglierne i raffinati riferimenti ipertestuali. La struttura del romanzo e la semplicità intelligente del personaggio riecheggiano innanzitutto il Marcovaldo di Italo Calvino; perché questo signore, come Marcovaldo, percorrendo i sentieri mentali che si susseguono e si biforcano come le stesse vie della città, sembra cercare qualcosa di cui avverte la mancanza e di cui sembra sentire inconsapevolmente l’esigenza. E lo troverà, alla fine della sua passeggiata, ai confini di una città non meglio definita (che evoca però una reminescenza francese): “Il signor Calvino allora si fermò (anche perché non poteva andare oltre). Aveva trovato quello che tanti cercavano: l’infinito. Si appuntò la via sul suo blocchetto. Si trovava alla fine di via Le Grand.”
Il signor Calvino osserva il mondo in tutti i suoi aspetti, anche quelli che a prima vista possono risultare banali, come un palloncino: “un esercizio fondamentale che gli permetteva di allenare l’occhio rispetto alle cose del mondo”. Ricorda in questo il Palomar calviniano, che attraverso le sue osservazioni minuziose conduce il lettore a cogliere sfaccettature diverse dell’esistenza. E le illustrazioni a sostegno dei ragionamenti del signor Calvino, di Rachel Caiano, sono disegni astratti, stilizzati, veri e propri bozzetti poetici ed evocativi di una soffusa malinconia e di un metafisico elucubrare che celano l’ansia di decifrare il mondo, la quale finisce, però, per dissolversi nell’indistinta vaghezza della sensazione, del sogno, della memoria e dell’oblio.
Come tutti i celebri personaggi abitanti del bairro, anche Il signor Kraus (e la politica) è un archetipo: è un giornalista ideale ed esemplare (e per questo terribilmente solo), dallo stile rigoroso, lucido, asciutto e soprattutto corrosivo. E non è un caso, anche per questo signore che popola l’immaginario quartiere letterario di Tavares, la scelta del nome: il personaggio Kraus è ovviamente un omaggio allo scrittore, saggista, aforista e panflettista austriaco Karl Kraus, morto nell’oblio nel 1936 e considerato oggi uno dei principali autori satirici di lingua tedesca del ventesimo secolo, per le sue pungenti critiche alla cultura, alla società, ai politici e alla stampa tedesca. Analogamente, Tavares, con la sua geniale abilità di smascherare la logica apparente e talvolta banale delle cose, consegna alla letteratura contemporanea un libro divertente e disinvolto, in cui il vero protagonista è la corruzione e la manipolazione della lingua che vige all’interno del mondo politico: un mondo dove, in nome di un’irresistibile fascinazione per il linguaggio demagogico, la realtà è irrimediabilmente messa da parte a discapito di chi il potere invece lo subisce, il popolo. E a proposito del popolo, lo stesso Kraus, in uno dei suoi appunti, commenta: “Dopo ogni elezione, la sensazione dei politici — vuoi che abbiano perso, vuoi che abbiano vinto — è che la parte più umile del popolo sia appena entrata tutta in un treno, per dirigersi, compattamente, verso una terra distante. Questo popolo tornerà soltanto, con lo stesso treno, nelle settimane che precedono l’elezione successiva”.
Il giornalista di Tavares, dunque, incaricato di commentare la politica attuale del suo Paese, utopico quanto il quartiere dove abita, inventa degli episodi satirici di cui sono protagonisti tre personaggi: il Capo e i suoi due Assistenti. Il Capo è un animale politico della peggior specie, dedito alle apparenze, egocentrico, mediocre e ignorante, mentre i suoi subordinati sono i classici lacchè d’animo basso e servile, sempre pronti all’elogio incondizionato e a mettersi umilmente agli ordini del potente di turno, nella speranza di un’agognata ricompensa futura.
Avvalendosi di una logica senza senso e di sillogismi fallaci, tipici del linguaggio politico, il testo di Tavares, paradosso dopo paradosso, descrive i momenti di vita del Capo: la campagna elettorale, i disegni di legge, le decisioni politiche, la sua ostentata dedizione alla causa pubblica; fino alla sua caduta, tanto letterale quanto metaforica, nell’epilogo. Viene dunque messo in scena uno spettacolo grottesco e incredibilmente attuale, universale perché atemporale, i cui attori sono delle caricature senza volto nell’epoca dell’imperialismo informatico di massa, dove la democrazia è il premio in palio di una partita di calcio allo stadio e i cittadini gli spettatori.
Di conseguenza, i dialoghi tra il Capo e i suoi Assistenti hanno rappresentato il banco di prova più arduo in termini di traduzione. La sfida era, in primis, come sempre quando si traducono i dialoghi, conservare la naturalezza del parlato, senza cadere in frasi finte o “stonate”; in secondo luogo, in un testo dove a livello pragmatico il linguaggio politico è emblematico di quanto la lingua venga troppo spesso corrotta e grettamente manipolata a fini meschini e persuasivi, di pari passo con la naturalezza, di vitale importanza, pena l’ironia fondante di tutto il signore, era conservare il tono affettato, pomposo e magniloquente e soprattutto la miriade di connotazioni e inferenze cui ogni battuta rimandava.
Il signor Walser (e la foresta) è solo al mondo ma è contento e soprattutto speranzoso, pieno di aspettative per la sua nuova casa, perché “vede in quella costruzione finalmente terminata — quanti anni ci sono voluti?! Tanti! — un’opportunità, insomma, siamo sinceri, di trovare compagnia.”
Così Tavares ci presenta, sin dalle prime righe, quest’altro singolare personaggio che popola l’universo intellettuale del bairro, in attesa di un Altro che si spera arrivi presto.
Queste vispe pagine hanno gli stessi tratti espressivi di un cortometraggio: il lettore riesce a vedere la nuova casa del signor Walser, costruita “in mezzo ad arbusti, erbe selvatiche e altre manifestazioni della natura ancora nel pieno e imprevedibile percorso della vita”; riesce a vedere, come in un piano sequenza, Walser che si muove a passi di danza per le numerose stanze dell’abitazione; riesce ad apprezzare il senso estetico dei battiscopa, del pavimento levigato, delle piastrelle lavorate, la rifinitura di ogni dettaglio; riesce persino a sentire l’odore di nuovo che aleggia nell’aria. E come se non bastasse, si ritrova immediatamente trascinato nello stato d’animo euforico, entusiasta e gioioso di quest’uomo, condividendone empaticamente ogni singolo momento: un educato signore, insomma, che non si demoralizza davanti a niente, neanche davanti ai numerosi imprevisti che si susseguono uno dopo l’altro fino all’epilogo.
Come per tutti i memorabili personaggi del quartiere di Tavares, anche in questo caso ci troviamo davanti a un raffinato omaggio letterario: Il signor Walser sembra essere uscito dal delicato mondo, tipicamente walseriano, che fa da sfondo al racconto di Robert Walser, La passeggiata (ma guarda, proprio come Calvino!), dove troviamo un personaggio sognatore, romantico e un po’ anarchico, ovvero uno scrittore che se ne va “così a spasso, mentre tanti altri lavorano e sgobbano”, all’inseguimento perenne dell’inafferrabile bellezza delle cose, un signore, anch’esso, dall’animo nobile e ben disposto all’incontro con l’Altro: “Mi riempiva un’attesa gioiosa di tutto ciò che avrebbe potuto venirmi incontro o presentarmisi” (qui e sopra: La passeggiata, di Robert Walser, nella traduzione di Emilio Castellani).
Come nel racconto dello scrittore svizzero, la narrazione di Tavares oscilla tra punte di lirismo e scanzonata ironia, e si svolge in un clima dominato dalla mitezza, dalla cortesia, dall’affabilità e dall’eleganza dei modi, dove l’incontro con il diverso non è mai vissuto come una minaccia. E mentre la casa appena inaugurata si disgrega a poco a poco, il lettore arriva all’explicit consapevole della triste verità che sembra rivelare che tutto è destinato a morire; tuttavia il messaggio ultimo è un altro. Nonostante le aspettative deluse, la casa ridotta in macerie, le impalcature sul retro, le finestre rotte sostituite dai cartoni, le infiltrazioni dal tetto, il buio, il freddo e la solitudine, il vigore della speranza continua a vincere su tutto: e “Walser, finalmente, dopo un giorno così lungo, e sebbene con tanta sete, si addormentò, tranquillo, pensando al giorno dopo. Aveva grandi aspettative.”
Pur sempre nel rispetto di una solida aderenza al testo originale e alle scelte dell’autore (sacrosante), questo è il signore che in fase di traduzione ha richiesto in termini di punteggiatura gli interventi più arditi, perché qui Tavares fa un uso del segno interpuntivo in modo molto più sbrigliato rispetto agli altri signori. Diversamente dalla prosa cadenzata, logica e ordinata di Calvino e Valéry (in Kraus, come dicevo, prevale la forma dialogica), in Walser, soprattutto nell’incipit ma non solo, l’uso di incisi, di subordinate, di periodi lunghissimi e intervallati da trattini e parentesi abbonda. Personalmente mi sembrerebbe naturale argomentare che ogni prosa è uno specchio del suo signore (ora e sempre), e che quindi in Walser questa sintassi più complessa e talvolta anche complicata rispecchia l’universo emotivo del personaggio, in un climax che trova pace nella proposizione finale. Tuttavia, si tratta a mio avviso di un nervo scoperto che riguarda le differenze sostanziali dell’uno e dell’altro sistema linguistico, differenze che non sono affatto da sottovalutare. Alcune considerazioni: l’italiano è una lingua più ipotattica che paratattica e fa largo uso di subordinate, quindi fin qui ci siamo; usa il punto e virgola e i due punti certamente in misura maggiore rispetto al portoghese (e rispetto allo spagnolo o all’inglese), quindi in alcuni casi, laddove all’interno di un periodo molto complesso la virgola segnava una pausa leggermente più lunga, si è optato, insieme alla redazione, per un punto e virgola; il portoghese (come anche l’inglese) ammette l’uso di due punti più volte all’interno di uno stesso periodo, cosa che è stata evitata nella versione italiana perché considerata “illecita”, se non con risultati di accentuata marcatezza; anche l’uso dei trattini, a sostituzione delle parentesi nelle parentetiche o delle virgole negli incisi, è molto più frequente in portoghese (frequentissimo in Tavares, in particolar modo in Walser) che non in italiano: la maggior parte è stata ovviamente e felicemente conservata, quale peculiarità del testo e dello stile di Tavares in generale (altrimenti, ritengo, sarebbe stato un sacrilegio, come scremare la poesia di Emily Dickinson di tutti i suoi mitici e famosi trattini); tuttavia, alcuni trattini in funzione parentetica all’interno di lunghi periodi hanno dovuto necessariamente lasciare il posto alle parentesi, perché in italiano non risultasse più marcato di quanto l’originale non fosse.
“Un libro — dice il grande saggista dei Cahiers, così attratto dai processi intellettivi — aiuta a non pensare”. E ha ragione, in qualche modo, perché c’è sempre qualcuno che lo fa al posto del lettore: per interposta finzione, s’intende. A pensare qui è Il signor Valéry (e la logica), il bizzarro e strampalato omonimo del poeta francese, un paralogismo vivente, quasi trascendentale, che supera i confini dell’esperienza per addentrarsi nelle contraddizioni della dialettica, direbbe Kant.
La scrittura fintamente ingenua che caratterizza quest’ultimo signore della raccolta dona un piacere intellettuale in virtù dei numerosi riferimenti, spesso paradossali, a una logica che travalica i confini di una presunta normalità continuamente messa in discussione. Lo stile geometrico e cadenzato delle venticinque microstorie fa da specchio allo spirito critico e speculativo del suo eccentrico personaggio fatto di dubbi, malinconie, manie e sogni: le ripetizioni, quasi ossessive, fungono da veri e propri refrain, come il verbo “Spiegava”, che sottende l’urgenza compulsiva, esplicativa e razionale di trovare una soluzione ai dilemmi del vivere quotidiano e che regala, dietro una sottile, arguta e surreale ironia, piccole perle preziose di saggezza. I disegni di Rachel Caiano, parte integrante di tutto il testo, hanno qui una valenza didascalica ancora più importante rispetto agli altri signori, poiché traducono lo sforzo del protagonista di provare la validità e la fondatezza dei propri ragionamenti: come Le petit Prince, che disegna per rappresentare un mondo che non è di immediata interpretazione per colui che aderisce esclusivamente a una forma. E comunque non si nega che, “siccome gli piaceva molto disegnare, il signor Valéry disegnava”.
In una cinquantina di pagine Tavares racconta i momenti di vita dell’emblematico capostipite del bairro, un perfezionista, piccolo di statura che, ossessionato dall’altezza, ha ingiustamente perso degli amici; un uomo né bello né brutto, che non ama la sua ombra e che ha scrupolosamente diviso il mondo e la sua casa in due e che “toccava le cose che si trovavano alla sua sinistra solo con la mano sinistra e le cose che si trovavano alla sua destra con la mano destra”.
Tra aforismi e nonsense, l’umorismo surreale di Valéry è pieno di reminiscenze dei giochi linguistici di Wittgenstein e di Carroll e fornisce una nuova rappresentazione intuitiva della realtà che prende spunto da una teoria singolare ma efficace. Non è un caso che Il signor Valéry si vesta a lutto: il nero, ovvero la tristezza, attirerà finalmente la parte bianca delle cose (la felicità?), in quanto suo estremo opposto e Altro da sé; come un triangolo rettangolo che vive melanconicamente il suo ibridismo, perché ha nostalgia del suo essere quadrato, e che per tornare alla sua antica essenza quadrata deve unirsi proprio a quello che non vuole più essere: un altro triangolo rettangolo.